Ciconauti
 
 

 

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e di Angelo Vaccari, leggi anche
Santa o
prostituta?
(Matilde di Canossa e Nonantola, a.D. 1076-1115)


titolo: "Lajos il barbaro - (a.D. 887-924)" (romanzo storico)
collana
Ciconauti
autore Angelo Vaccari
ISBN 978-88-99021-22-1
€16,00 - pp.373 - © 2015 - In copertina, “Lajos il barbaro (sive gentem belli asperrimam”, progetto grafico e illustrazione originale di Andrea Tarli - BadTripProduçao (www.badtrip.it).


Anno 887, gli Ungari attraversano le Alpi per entrare in Italia.
Lajos, giovane guerriero, è sconvolto quando suo padre dona sua sorella Arla alle streghe, affinché il Dio del suo popolo benedica lo spostamento...

 

 

... Sempre a caccia di bottino per sfamare la propria gente, Lajos devasta interi villaggi, massacra e ruba durante l’esodo, ma incontra la fede cristiana e mette in dubbio le credenze religiose degli Ungari. Sarà esiliato insieme alla sorella, che le streghe hanno liberato dopo averla resa sorda, muta e cieca. Re Berengario deve affrontare intanto l’emergenza e cercare di fermare i barbari che stanno distruggendo l’Italia del nord. Lajos, caduto prigioniero, è costretto a lasciare sua sorella e la sua innamorata al loro destino. Tuttavia, dopo essere fuggito dal campo di re Berengario, ferito e quasi morente, trova rifugio in un monastero dove viene curato. Ripartirà dunque alla ricerca della sorella e dell’innamorata, la sua famiglia sarà massacrata, le streghe gli tortureranno la mente con la magia. Nel frattempo, l’Italia del nord brucerà per colpa dei barbari. Gli Ungari distruggeranno l’Abbazia di Nonantola e tutto il paese.

 

Lajos, il barbaro col crocifisso,
combatterà il suo popolo e la sua fede
per affermare la supremazia dell’amore
sulla cultura dell’odio e della distruzione.

 

 
 

Brano tratto da: "Lajos il barbaro - (a.D. 887-924)"

(...)

Lajos, a.D. 899

Lajos era un giovane ungaro che per la prima volta da adulto si preparava ad affrontare lo spostamento del suo popolo.
Era notte fonda e le tre streghe Astrud stavano chiedendo l’aiuto degli Dei, perché il viaggio fosse privo di pericoli e perché i turchi non disturbassero gli ungari durante lo spostamento.
A Lajos che era vissuto alcuni anni in quei luoghi dispiaceva molto lasciarli, eppure si rendeva conto che negli ultimi mesi grosse bande di turchi avevano massacrato molte famiglie del suo popolo ed i soldati di re Arpad non riuscivano a fermarli.
Le sorelle Astrud iniziarono il rito magico ed era la prima volta che poteva assistere; prima dei sedici anni si era considerati bambini e sua madre lo aveva sempre rinchiuso nella capanna insieme ai fratelli, perché era troppo giovane.
Le streghe iniziarono con un canto che non riusciva a capire, usavano un’antica lingua oppure dei termini che conoscevano solo loro e Lajos rabbrividì.
La più giovane emetteva sibili che sembravano quelli dei serpenti, indossava una veste fatta con le loro pelli.
Un’altra gridava in modo rauco e qualche volta il giovane riconobbe i versi del lupo e dell’orso, in testa portava un copricapo peloso, era avvolta in una pelliccia dalla quale pendevano unghie e denti di una lunghezza impressionante.
La terza era la più anziana e la più lugubre e spaventosa, con quei gesti di rapace e strilli di aquila, con addosso una mantello fatto di piume e lunghi artigli alle dita.
I visi delle donne erano dipinti di rosso con gli occhi cerchiati di nero, le bocche erano sdentate e gocce di saliva sgocciolavano sul loro mento, mentre cominciarono a muoversi piano intorno al grande fuoco che bruciava nella vallata illuminando la notte.
Tutto il popolo degli ungari era raccolto ad osservarle, ad ascoltare le loro previsioni, ad aspettare un buon presagio, a tremare di paura perché le sorelle erano capaci di invocare gli spiriti fino a farli camminare fra loro.
Battendo i piedi sporchi sul terreno la più anziana allargò le braccia e le piume caddero in giù come se avesse le ali, poi le alzò in alto e tornò ad abbassarle come se tentasse di spiccare il volo.
La più giovane si sdraiò sul terreno e cominciò a strisciare, le scaglie lucenti che aveva cucito insieme riflettevano i colori ed i movimenti del più grosso serpente mai visto prima.
La seconda si accucciava come se avesse quattro gambe e grugniva, guaiva, annusava il terreno e poi si alzava in piedi mostrando quei denti e quelle unghie spaventose.
Fecero un primo giro intorno al fuoco, poi si fermarono ballando sul posto ed emettendo sempre quei terribili lamenti, che ai presenti sembravano minacce di orribili sofferenze e di morte.
Dopo molto tempo si fermarono e tacquero.
Il silenzio sembrò più minaccioso.
Il popolo ungaro si guardava intorno come se dovesse arrivare qualcosa o qualcuno di terribile, chi si trovava ai margini della folla cercò di infilarsi fra gli altri guardandosi le spalle, gli uomini misero mano alle armi e c’era chi osservava il cielo con gli occhi sbarrati.
Una delle megere lanciò un urlo acuto e cominciò a dimenarsi come se soffrisse terribilmente: dagli occhi le scese del sangue che brillava alla luce delle fiamme, dalla bocca le uscì qualcosa di verde e schiumoso, le piume svolazzavano in su ed in giù, in su ed in giù.
Le altre due non si muovevano, sembrava che fossero in attesa di qualcosa.
Lajos voleva andarsene, era terrorizzato. Forse intuendo cosa stava pensando, suo padre gli mise una mano sulla spalla e la strinse forte.
Lajos girò lo sguardo per guardare il genitore e lo rigirò subito in direzione del rito magico; aveva quasi diciotto anni ed era diventato uomo quasi due anni prima, non poteva dimostrarsi impaurito.
Le tre megere ricominciarono a ballare e questa volta sembrava che chiamassero qualcuno; ripetevano sempre lo stesso nome complicatissimo in quella lingua sconosciuta, mentre i tamburi iniziarono a suonare piano.
“Nooo, nooo!” si sentì gridare da un luogo imprecisato della grande assemblea di persone.
“Nooo, nooo, nooo! Lasciatemi, liberatemi, non voglio!”
Lajos cercò di girarsi per capire chi stava gridando e la mano di suo padre gli strinse più forte la spalla, per obbligarlo a tenere lo sguardo in avanti.
Le urla continuavano e la folla cominciò a spostarsi per aprire uno stretto corridoio, nel quale passarono due guerrieri che trascinavano una ragazza completamente vestita di fiori.
“Arla? Cosa c’entra Arla in tutto questo?” pensò Lajos, preoccupato per lei.
Le megere si erano fermate e guardavano in direzione delle grida di aiuto, erano immobili e solo le piume si muovevano ogni tanto per effetto della brezza primaverile.
Arla passò davanti a Lajos. “Aiutami Lajos ti prego. Non voglio morire... aiutami!”
Il padre del giovane era rigido ed impettito e la ragazza lo vide. “Ti prego padre, non ho fatto niente di male. Salvami per favore!”
I due guerrieri la trascinarono avanti; Lajos voleva fare qualcosa e non sapeva cosa, ma non poteva permettere che facessero del male a sua sorella. Quelle vecchie streghe cosa potevano farle?
Arla passò a fianco dello scranno dove sedeva re Arpad, sorprendendo le guardie gli afferrò un piede e cominciò a pregarlo. “Non darmi alle streghe maestà, per favore! Lo sai che non ho fatto niente di male, abbi pietà di me! Ti supplico!”
I due uomini la tirarono, ma lei si era agganciata alla caviglia del monarca e stringeva con tutte le sue forze, mentre Lajos cercò di divincolarsi dalla stretta della mano del padre per aiutarla. “Non possiamo lasciare che...”
Il padre girò lo sguardo per rimproverarlo. “È un grande onore per la nostra famiglia, dovresti essere fiero del destino di tua sorella.”
“Ma come fiero... cosa vogliono farle? Le faranno del male?”
“Stai zitto, guarda e non osare ribellarti alle usanze del tuo popolo.”
In qualche modo i guerrieri riuscirono a staccare Arla dal sovrano e le legarono i polsi, poi si allontanarono da lei tenendo ben tirate le corde perché non potesse muoversi.
Le tre streghe ricominciarono a chiamare quel nome che sembrava composto di sole vocali, era incomprensibile e terribile allo stesso tempo.
Migliaia di occhi cercavano di guardare cosa stava succedendo, in quella valle naturale con piccole colline che terminavano in basso dove c’era il fuoco con la foresta alle spalle.
C’era silenzio assoluto ed i brividi correvano anche se non c’era freddo, i nervi si contraevano involontariamente come se fossero percorsi da qualcosa di invisibile sotto la pelle.
Si udirono rumori nel folto della foresta: rami strappati con rabbia, cespugli calpestati con forza, passi pesanti e tonfi sordi spaventarono una volpe che corse fuori e quando vide gli uomini cercò di scappare.
Il sottobosco si aprì come se stesse passando qualcosa di enorme e subito dopo i rami di un cespuglio si richiusero, l’erba si rialzò e la luna spuntò tonda e rossa in cielo.
La megera più anziana alzò le braccia verso la luna per ringraziarla, poi si girò per guardare quel qualcosa che stava arrivando continuando ad invocare quel nome.
La folla cercò di perforare il buio, ma non vedeva niente.
Solo i più vicini si accorsero che l’erba si piegava come se fosse pressata da un peso immane e che poi si rialzava. Quella cosa era quasi invisibile, era poco più di un’ombra; una delle tante illusioni create dal fuoco e dalla luna.
Qualcuno era sicuro di vedere un orso enorme, qualcuno vide un mostro alato, altri erano certi che fosse un enorme caprone, ad altri ancora parve un’aquila con la testa di cane.
Arla ricominciò ad urlare, anche lei aveva sentito la presenza pericolosa.
Le tre megere si inginocchiarono a terra e poi si sdraiarono a faccia in giù, mentre quell’ombra si avvicinava alla giovane.
Lajos era esterrefatto. All’inizio aveva pensato di avere le allucinazioni, poi, pian piano e seguendo l’erba schiacciata, cogliendo i bagliori del fuoco ed un raggio di luna che passando dalla chioma degli alberi arrivava sul terreno, si accorse che quell’ombra, quel fumo o quella cosa invisibile, somigliavano tanto al servitore deforme delle streghe.
Quel passo mezzo strascicato, quella postura della enorme gobba, quel modo di tenere le braccia penzoloni come se fossero disarticolate dal corpo, quelle gambe storte e quel testone enorme non potevano appartenere ad altri.
“Padre... padre... hai visto chi è?”
Il padre strinse ancora per un momento la sua spalla per farlo tacere.
Da bambino Lajos aveva trovato il coraggio di spiare da una finestra del tugurio delle streghe. La sua intenzione era stata quella di dimostrare agli amici quanto era coraggioso, ma era anche incuriosito da quello che si diceva sulle sorelle Astrud. Le tre donne erano indaffarate con erbe ed intrugli, ma l’aveva visto bene quello strano essere accucciato in un angolo. All’inizio gli era sembrato un grosso cane che si era alzato in piedi e che forse aveva annusato il suo odore, ma il giovane si era accorto che era incatenato ed era scappato.
Un’altra volta l’aveva visto di notte; Lajos si trovava nel bosco per cacciare qualcosa da mangiare per il giorno dopo, quando aveva scorto le streghe che lo portavano fuori guardinghe.
Quella camminata e quella figura gli si erano impressi nella mente ed era sicuro che si trattava di lui, nonostante gli avessero messo degli zoccoli molto spessi ai piedi per farlo sembrare più alto, qualcosa sulle spalle al quale era appoggiato un larghissimo mantello per aumentarne la statura e le dimensioni del corpo, e dei rami che gli allungavano le braccia che quasi toccavano terra.
Era lui... anche se aveva quegli occhi rosso fuoco, anche con quel testone grande come un macigno... era sicuramente lui, ne era certo.
“Padre, padre ascoltami!”
“Stai zitto!” sussurrò Chenzo stringendogli la spalla e poi lasciando la presa, ma tenendo appoggiata la mano.
“Cosa vuol fare ad Arla? Hai visto chi è?”
L’uomo girò lo sguardo sul figlio che era alto quanto lui, e lo bruciò con gli occhi per ammonirlo.
Solo una cosa non sapeva spiegare il giovane. Com’era possibile che quel mostro, a volte era visibile ed altre spariva quasi completamente alla vista?
Sua sorella gridava come una forsennata. “Aiuto, aiutooo! Qualcuno mi aiuti! Padre, madre, aiuto!”
Le streghe intonarono un nuovo canto lugubre ed il mostro si fermò un attimo per guardarle, poi il suo sguardo fu attratto dalla ragazza.
Migliaia di persone osservavano la scena, qualcuna con le mani alzate per pregare il Dio.
La donna accanto a Lajos mormorava parole ed il giovane cercò di capirle. “Portala con te e non rifiutare il nostro dono, non ucciderla grande Dio e mostrati favorevole. Non ucciderla grande Dio... non ucciderla.”
“Quello non è un Dio, è solo un essere deforme!” pensò Lajos. “Io lo so che non è un Dio!”
La mostruosa figura sparì quasi completamente e riapparì qualche passo dietro ad Arla. “Questa è magia! Come può sparire e riapparire in quel modo?”
Le streghe continuavano il canto che sembrava un invito, un atto di sottomissione ed una preghiera.
Il mostro sparì nuovamente e tutti i presenti videro Arla che si alzava da terra, come se qualcuno l’avesse appoggiata sulle spalle.
La ragazza si divincolava a mezz’aria, scalciava e tentava di liberarsi gridando come se la stessero uccidendo, sotto di lei c’era il vuoto e solo l’erba si piegava per rivelare la presenza di una forza invisibile.
Lajos voleva correre dalla sorella, voleva uccidere quel mostro e liberarla, non poteva più resistere e siccome gli altri stavano guardando a bocca aperta si sentì impotente.
Suo padre gli afferrò il polso sinistro in una morsa ferrea.
Lui tentò di liberarsi perché non sopportava più le grida della sorella; la nonna lo guardò con aria di rimprovero, sua madre gli sorrise.
“Che cosa c’è da ridere?” pensò sorpreso. “Quella cosa sta portando via mia sorella e voi siete contenti?”
Dalla folla si alzò un mormorio di approvazione.
Il Dio era sparito nella foresta con la ragazza e tutti si congratulavano con il vicino, ridevano, piangevano di gioia.
Le tre streghe si alzarono in piedi. “Il Dio ha accettato il dono, il popolo degli ungari può partire sotto la sua protezione e troverà ampie vallate, animali e cibo in quantità. Il Dio vi proteggerà e guiderà i passi del saggio re Arpad che vi comanda.”
La folla cominciò a muoversi e disperdersi... la cerimonia era finita. L’auspicio era stato uno dei migliori e tutti lo commentavano.
Lajos invece non riusciva a muoversi: i suoi fratelli e le sorelle cercarono di portarlo a festeggiare, il padre e la madre lo guardarono sorridendo e la nonna gli disse qualcosa. “Hai visto che è andata bene, che ha accettato Arla senza ucciderla? Eri tanto preoccupato, ma il nostro Dio è buono e troveremo altri luoghi dove vivere.”
Il giovane non riusciva a capire, gli sembrava che i suoi parenti fossero improvvisamente impazziti.
Tutto il suo popolo era impazzito.
Restò da solo, al buio e con quello strano peso sulle spalle. “Perché non capisco come gli altri? Perché mi sto preoccupando per Arla quando sono tutti felici?”
Solo il fuoco stava ancora bruciando vivacemente, lanciando alte scintille nel cielo buio.
Le streghe se n’erano andate.
Cercando una spiegazione a ciò che aveva visto, Lajos fece i pochi passi che lo separavano dalla conca; suo padre era un nobile e per questo aveva potuto assistere da molto vicino.
Erba calpestata, il fuoco che crepitava, le corde che avevano legato i polsi di Arla, una piuma che si era staccata dal mantello della strega anziana, orme gigantesche e nient’altro.
Che cosa stava cercando?
Nella testa gli ronzava il fatto di non capire come mai quel Dio che lui sapeva essere una persona reale, a volte spariva e poi riappariva come se fosse fumo. Aveva deciso cosa doveva fare, però quella cosa gli rodeva il cervello ed esitava a partire in cerca della sorella.
E se fosse stato veramente un Dio?
E se l’essere che lui aveva preso per un uomo deforme nel carro delle streghe, fosse stato davvero uno dei tanti Dei del suo popolo?
“È assurdo! L’ho visto ed era un poveretto, un essere umano. Quello non può essere un...”
Doveva vedere e capire, era più forte di lui ed altre volte si era ficcato nei pasticci perché non aveva resistito alla tentazione.
Sua sorella aveva sicuramente bisogno di lui e senza pensarci troppo afferrò un pezzo di legno infuocato, entrò nel bosco e cominciò a seguire quelle orme gigantesche.
Le foglie, i rami, i cespugli e la notte gli si chiusero addosso come se fosse entrato in una stretta caverna, la torcia serviva a poco e ogni quattro o cinque passi si fermava per illuminare il terreno alla ricerca di quelle orme.
“Ma quale essere vivente o Dio può avere i piedi di quella forma? Ho ragione, quelli sono zoccoli di legno e non i piedi di qualcuno. Devo fare presto!”
Le orme erano inconfondibili e le seguì per almeno duecento passi, poi sparirono improvvisamente.
Spostò foglie e rovistò fra i resti marci del sottobosco, spostò cespugli e rami caduti e non trovò nulla... assolutamente nulla.
L’improvvisata torcia si stava spegnendo e non volendo rinunciare alla ricerca strappò un cespuglio, lo legò ad un ramo basso per ritrovare l’esatto punto con la luce del giorno, poi si voltò indietro ripromettendosi di tornare.
Sarebbe tornato ed avrebbe ritrovato sua sorella.
Ne era sicuro!
Arrivò a casa molto tardi e trovò suo padre che lo aspettava. “Dove sei stato?” gli domandò sottovoce per non svegliare gli altri.
“Ho cercato Arla. Ho seguito le tracce del mostro per salvarla, perché siete andati via senza aiutarmi?”
“Allontaniamoci dalla capanna, vieni con me!” rispose Chenzo.
Lajos era preoccupato; per lui era tutto tempo perso mentre sua sorella stava soffrendo, inoltre non capiva l’arrendevolezza di suo padre. Proprio lui... lui che adorava i suoi figli dal primo all’ultimo. Proprio lui che molte volte era corso ad aiutarli ed aveva sofferto quando erano ammalati. Proprio lui che non faceva niente?
Camminarono un po’ e poi si fermarono. “Tua sorella è diventata una Dea, non puoi ritrovarla. È la prima volta che assisti da adulto ad una delle nostre cerimonie, perciò devi accettare le usanze del tuo popolo anche se ti procurano molta sofferenza. Non puoi intervenire in cose che nessuno può capire.”
“Voi credete che sia venuto un Dio a prendere Arla, ma l’ho già visto quello strano essere. L’ho visto nel carro delle streghe dove lo tengono legato con catene. Quello non è un Dio, devi credermi padre, non ho mai detto bugie.”
“Taci e ascolta. Ho dovuto sacrificare Arla per il bene del nostro popolo, il Dio l’ha presa e gli ungari sanno che è diventata una Dea che dalle stelle li proteggerà. Guarda in alto figliolo, una di quelle stelle è tua sorella. Adesso è felice e non puoi riportarla a casa, sono le nostre tradizioni e dovresti essere fiero che un Dio abbia accettato tua sorella. Domani partiremo e troveremo buona terra con pascoli rigogliosi, saremo ricchi e ci salveremo dai turchi che ci stanno massacrando.”
“Proprio non vuoi credermi, quello non è un Dio! È un trucco e sono sicuro che Arla è morta per mano di quell’uomo deforme, oppure delle streghe. Forse la tengono rinchiusa nel loro carro, forse l’hanno abbandonata nel bosco dove morirà divorata dalle bestie feroci. Vieni con me padre, andiamo dalle streghe e vedrai quel mostro con i tuoi occhi.”
“Adesso basta! Ti proibisco di continuare le ricerche e nessuno può avvicinarsi a quel carro!”
Lajos non sapeva come convincere il padre.
“Andiamo a dormire, domani ci sono molte cose da fare.”
“Padre!”
“Andiamo a dormire, questa storia è finita anche se mi sono vergognato di te durante la cerimonia. Ti proibisco di fare qualsiasi cosa che possa procurare altro imbarazzo alla famiglia. Ci siamo capiti?”
Lajos annuì; non poteva ribellarsi al proprio genitore anche se era sicuro di ciò che aveva visto.
Il popolo degli ungari partì all’alba.
Un gruppo di mille guerrieri armati lasciò gli altri fin dal mattino presto; il loro compito era quello di aprire la strada per evitare che il sovrano, gli anziani, donne e bambini potessero cadere in imboscate. Altri mille guerrieri presero posto davanti a re Arpad, subito dietro c’erano i nobili fra i quali la famiglia di Lajos, poi i meno nobili ed il popolo.
In fondo c’erano le mandrie di mucche, pecore, capre e maiali, proprio per ultimo un altro distaccamento di mille soldati per proteggere l’esodo del popolo.
Era una cosa impressionante a vedersi, l’ampia vallata era affollata di persone, animali e carri. Molti altri guerrieri a cavallo coprivano i fianchi, pronti ad intervenire se si fossero presentati i turchi.
Come un essere mostruoso quella moltitudine cominciò a strisciare piano sulla terra, lasciando solamente il fango e la distruzione che può provocare il passaggio di migliaia di piedi e di zoccoli.
Lajos si girò indietro sulla sommità di una delle collinette, l’accampamento che avevano abbandonato stava bruciando. I fienili vuoti sprizzavano alte scintille, i pozzi per l’acqua erano stati riempiti di terra, i recinti per gli animali non esistevano più.
Gli si strinse il cuore al pensiero che niente sarebbe stato come prima, poi guardò il boschetto dove si era consumato il sacrificio di sua sorella e la salutò con la mano. Forse era ancora là che invocava il suo nome... non aveva fatto niente per aiutarla.
Quasi per caso l’occhio gli cadde sul carro delle streghe in fondo alla lunga colonna; era l’unico completamente coperto da assi di legno come fosse una casa semovente. Riusciva a vederlo molto bene perché il popolo si teneva a distanza per paura, per superstizione o temendo chissà che cosa.
Il giovane pensò che forse... forse... spronò il cavallo per andare avanti, aveva fatto una promessa a suo padre e non poteva fare niente.
“Siamo come le locuste!” pensò Lajos amareggiato, fermandosi ancora un po’ per osservare il disastro che si lasciavano dietro.
Disgustato girò il cavallo in avanti e lo spronò fino a trovarsi al fianco di suo fratello Soros, che lo guardò in viso e capì che qualcosa non andava. “È dura partire, vero Lajos?”
Suo fratello pensava come tutti gli altri che la vita di una ragazza fosse poca cosa; lui se n’era già fatta una ragione che Arla non era più tra loro.
Lajos annuì silenzioso.
Il fratello lo guardò ancora. “Hai voglia di fare un giro? È una noia mortale andare avanti tanto piano, mi piacerebbe raggiungere i soldati in avanguardia o quelli in retroguardia, vieni con me?”
“Ti accompagno”, rispose Lajos. “Ti accompagno e ne approfittiamo per controllare se qualcuno è rimasto indietro. Facciamo qualcosa di utile.”
“Vediamo chi arriva per primo in fondo alla colonna?”
Il fratello partì e Lajos lanciò anche il suo cavallo. L’aria fresca gli schiarì presto il cervello e cominciò a godere della sfida e della corsa, gli occhi gli lacrimavano per il vento e sembrava che piangesse, ma in fondo al cuore aveva quel pensiero che lo assillava.
Divertendosi come due ragazzi sfiorarono la lunga colonna tra gli sguardi invidiosi e stanchi di chi era a piedi, si fecero inseguire da un grosso cane da pastore perché avevano sparpagliato le sue pecore, alcuni vecchi li guardarono con palese disapprovazione, altri sorrisero.
Arrivarono in fondo alla colonna e suo fratello che era arrivato per primo si fermò contento. “Questa volta ho vinto io, finalmente ti ho battuto!”
Lajos era distratto e dopo aver tirato una pacca sulla spalla del fratello per congratularsi con lui, si fermò per guardare un carro in lontananza. “Ehi, c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto. Guarda quanto è rimasto indietro quel carro, Soros!”
“Andiamo ad aiutarli allora”, rispose il giovane ricominciando a correre.
Pensavano che uno degli animali del carro si fosse azzoppato, che una delle ruote si fosse rotta, ma, man mano che si avvicinavano videro che la distanza era tenuta deliberatamente.
I due cavalli erano sani e robusti ed il carro avanzava agevolmente come gli altri, solo che... solo che alla guida c’era una delle tre indovine.
“Andiamo via, torniamo indietro!” disse Soros.
“Ma no! Invitiamola ad unirsi agli altri, da sola è in pericolo se arriva un manipolo di turchi...”
A Soros non restò che seguire il fratello che in fondo aveva ragione, anche se alle loro spalle ad una distanza di circa duemila passi c’era uno stuolo di un migliaio di guerrieri ungari.
Giunti ad un centinaio di passi dal carro, la megera che lo guidava si alzò in piedi puntando un grosso e nodoso bastone per ammonirli a non avvicinarsi.
Il fratello di Lajos si fermò subito.
Lui continuò a correre; sembrava che avesse perso il controllo del cavallo, le redini penzolavano dal collo dell’animale e per non cadere si era attaccato alla criniera.
Suo fratello Soros ripartì per aiutarlo, ma Lajos puntava esattamente su quel carro e poteva fermare l’animale in qualsiasi momento, se solo avesse voluto. Fingendo di scivolare dalla coperta sulla groppa e stringendo le setole della criniera per rimettersi dritto, Lajos si piegò sul collo dell’animale ed afferrò le redini un attimo prima di investire il carro.
“Oh meno male, se non riuscivo a fermarlo mi sarei ammazzato. Questo stupido animale si è spaventato per qualcosa, io che ero distratto ho perso il controllo.”
Suo fratello arrivò subito. “Che diavolo combini? Non sei più un ragazzo per farti scivolare le redini di mano!”
Erano arrivati entrambi dietro al carro che era chiuso, c’era una capra legata che trotterellava e la megera si girò per guardarli e rimproverarli. “Andatevene, nessuno può avvicinarsi!”
“Chiedo scusa, non è colpa mia! Adesso ce ne andiamo!”
Lajos strizzò l’occhio al fratello e tornando indietro sfiorò il legno con le orecchie tese, con i nervi a fior di pelle e la paura della strega che gli torceva le budella. “Se lì dentro c’è Arla mi sentirà e mi chiamerà!”
Andando di poco più veloci del carro raggiunsero la donna alla guida che li fulminò con gli occhi. “Siete ancora qui? Dovete andarvene... vi farò punire dal re per la vostra sfrontatezza!”
“L’avete visto che non è stata colpa mia e chiedo perdono, siete molto distante dalla colonna ed abbiamo pensate che foste in difficoltà.”
“Non sono affatto in difficoltà, dovreste saperlo che nessuno può avvicinarsi!”
“Io credevo che foste più avanti, ho visto il vostro carro e non immaginavo che... il cavallo mi è sfuggito di mano e...”
“Basta!” gridò la donna puntandogli il bastone addosso.
La vista del pomolo scolpito a forma di testa di ariete, con due pietre rosse al posto degli occhi paralizzò i due giovani. Quel bastone era famoso fra gli ungari. C’era chi sosteneva che si trasformava in serpente, che da quegli occhi sprizzavano lingue di fuoco, che quando la megera lo appoggiava a terra l’erba si seccava, che era capace di rendere ciechi e che aveva il potere di incenerire.
Lajos restò paralizzato; quella testa era maligna e sembrava viva.
La strega aveva puntato lo sguardo su di lui e gli parlò. “Tua sorella è stata gradita al Dio, devi smetterla di pensare a lei.”
Il bastone fu abbassato e Lajos riacquistò lucidità, ancora però non poteva parlare: avrebbe voluto dire tante cose e protestare, voleva guardare dentro al carro dov’era sicuro che avrebbe trovato quel falso Dio ed anche sua sorella, voleva minacciare quella megera e farle ammettere che... che...
“Adesso vattene e ricorda che gli spiriti proteggono il carro, me e le mie sorelle. Se ritornerai dovrai fare i conti con loro.”
Lajos spronò il cavallo e si allontanò con la sensazione che quella donna poteva leggergli i pensieri. Risalì una collinetta alla sinistra della colonna con il fratello dietro e si fermò, doveva respirare e cercare di riprendere il controllo di se stesso. “Quell’essere schifoso... quella strega... maledetta.”
“Quella è una santa donna, per fortuna che abbiamo loro tre per proteggere il popolo dagli spiriti malvagi. Non dire quelle cose fratello.”
“Sono sicuro che Arla è in quel carro, oppure in quello più avanti!”
“Arla non è più su questa terra, quando doniamo una fanciulla al Dio nessuno la rivede.”
“Non è vero! Lo sai anche tu che qualcuno ha rivisto la propria figlia, o la sorella, o l’amata...”
“Sono tutte storie, il dolore della perdita provoca spesso delle allucinazioni. Qualcuno ha visto la figlia sul carro di un ambulante, altri l’hanno rivista in terreni lontani che abbiamo lasciato, per altri ancora era notte e molti erano sicuramente ubriachi. Arla è fra le stelle adesso, non pensarci più.”
“Non posso prometterlo, sono sicuro che Arla è ancora viva e la ritroverò. Giurami che non lo dirai a nostro padre.”
“Te lo giuro, stai tranquillo. Però ti conosco Lajos. Lo so che quando ti metti qualcosa in testa non c’è modo di togliertela. Questa volta hai torto e ti metterai sicuramente nei guai, lascia stare le streghe, lo dico perché ti voglio bene.”
Lajos spronò il cavallo e tornò dietro a quello di suo padre.
I giorni passavano lenti e monotoni; per raggiungere una collina in lontananza ce ne volevano a volte due o anche tre. Il popolo degli ungari era talmente numeroso e lento che quando giungeva il buio, la coda della colonna si trovava nello stesso posto in cui si era trovata la testa la sera prima.
A giorni alterni Lajos dava il cambio agli uomini in avanguardia o in retroguardia, oppure a quelli ai lati che proteggevano i civili dagli attacchi dei loro nemici.
I giorni passavano, dietro a quel popolo restava solo desolazione e morte. Gli animali brucavano e calpestavano l’erba, i cacciatori sterminavano la selvaggina, i predatori rubavano tutto quello che poteva servire ed uccidevano i contadini dei dintorni.
Rasero al suolo interi villaggi rubando e saccheggiando, rapendo le ragazze giovani e stuprandole prima di portarle via per farne delle schiave. Uccisero vecchi e bambini, si divertirono torturando gli uomini e distruggendo le loro cose.
Era un popolo di selvaggi, che non avendo una terra propria viveva di quello che poteva offrire la natura e lo sforzo di altri uomini.
Tagliarono alberi per accendere i fuochi, insudiciarono il terreno con feci ed urine, distrussero ogni cosa per molte miglia ai lati del loro passaggio.
Lajos odiava il servizio di retroguardia perché gli forniva l’occasione di guardare queste cose. Le sue narici si riempivano del fumo di alberi bruciati, del puzzo di escrementi, dell’odore di sangue: i suoi occhi sfuggivano dai cadaveri e dalle baracche incendiate, dai resti di migliaia di pasti abbandonati a marcire.
Lui voleva affrontare i turchi con la spada e se avesse perso sarebbe morto, ma fuggire come un vigliacco non poteva sopportarlo.
Passarono le settimane, fra le nuvole e la nebbia spuntarono altissime montagne.
Lajos era in avanguardia ed era l’occasione per ammirare la natura stupenda che aveva davanti. Foreste immense alternate a grandi spazi aperti, fiumi impetuosi ed altri più tranquilli, uccelli in volo e tanti animali, che si fermavano per guardare gli esseri umani come se fossero degli intrusi in un territorio che era loro.
Quante volte gli era successo, che dopo essere stato in avanguardia era andato in retroguardia ed aveva visto la differenza?
“Fra due o tre giorni questo paesaggio non sarà più così”, pensò con amarezza. “Il mio popolo lo devasterà e ci vorranno anni perché torni bello come ora.”
In quel momento arrivò uno degli esploratori; ce n’erano tanti che precedevano il grosso del popolo per trovare la strada migliore, per scoprire villaggi o case, chiese o monasteri, campi coltivati o pastori con le loro pecore, fiumi dove buttare le reti, gruppi di animali selvatici da catturare.
“Sulla nostra destra c’è un grosso villaggio Lajos. Intorno al villaggio ci sono campi coltivati, recinti con decine di mucche, pecore, capre, maiali. C’è un mulino ed una struttura in pietra che sicuramente contiene oro e pietre preziose.”
“Hai visto dei soldati?”
“Macché soldati, secondo me ci sono solo lavoratori.”
Per la prima volta Lajos decise di partecipare ad un saccheggio. Erano giorni che non trovavano abbastanza cibo per sfamare la popolazione, quella poteva essere l’occasione buona per accontentare chi si lamentava.
Le montagne erano vicine, una volta cominciato l’attraversamento avevano poche speranze di trovare abbastanza cibo per tutti, forse qualcuno sarebbe morto di fame e fatica ed un buon rifornimento era necessario per creare scorte.
Le mandrie che c’erano alla partenza si erano molto ridotte di numero, perciò Lajos decise di tornare indietro per chiedere il permesso di re Arpad.
Occorsero pochi minuti ed il giovane magiaro partì, seguendo l’esploratore e alla guida di un centinaio di uomini.
Arrivarono che nel villaggio non c’era più nessuno. Gli abitanti si erano accorti dei barbari ed avevano abbandonato le loro cose, si erano nascosti da qualche parte nella speranza di salvare almeno la pelle.
C’era rimasto un prete davanti alla chiesa che sembrava voler difendere da solo, impugnava un alto crocefisso che teneva davanti a sé e Lajos pensò che quella era un’arma a lui sconosciuta. Fermò i suoi uomini, smontò dal cavallo ed impugnando la spada si avvicinò all’uomo con la lunga tonaca nera che sembrava non aver paura.
Non aveva mai visto un prete e gli sembrava strano che un solo uomo osasse sfidarlo con tanto coraggio, armato di due pezzi di legno incrociato poi...
Lajos studiò quella croce e non vi trovò niente di pericoloso; non c’erano punte di ferro che potessero ferirlo, non c’erano frecce che potevano partire e colpirlo. Erano solo due pezzi di legno; uno più lungo in verticale e l’altro più corto in orizzontale, ma quell’uomo tutto nero lo esibiva come se fosse un’arma micidiale.

(...)


 
 

Angelo Vaccari è nato a Nonantola nel 1952, ha lavorato in banca tutta la vita e ha fatto una brillante carriera. Dopo la pensione ha cominciato a coltivare la sua passione che è la storia. Volendo renderla leggibile e divertente, accessibile a tutti e non solo agli appassionati, con il desiderio di far conoscere il suo paese che un tempo era un centro di fede, ha cominciato a scrivere romanzi storici e ha pubblicato La reliquia, Anselmo e l’Abbazia, Dammi un segno, La Charta, prima di pubblicare da Cicorivolta, nel 2014, Santa o prostituta? (Matilde di Canossa e Nonantola, a.D. 1076-1115) ed ora Lajos il barbaro, con il quale si è aggiudicato il Primo posto al Gran Premio d’Europa 2013, il Secondo al Memorial Vallavanti Rondoni Caorso 2014, il Secondo al Premio Giacomo Puccini 2014.

Oltre a ciò, negli ultimi anni ha vinto un gran numero concorsi letterari.