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ordinalo senza spese di spedizione

titolo: "Prose della volgar lingua"
collana blocknotes
autore Lorenzo Muccioli
ISBN 978-88- 97424-67-3
€ 14,00 - pp.261- © 2013 - in copertina,"Chi spinge hardcore...", by Stefano Sergiampietri (StenTwo).


I protagonisti di questo romanzo giovanilissimo sono cinque ragazzi tra i diciassette e i diciotto anni: Moffomalpelo, che ha in progetto di costruirsi una coltivazione di canapa; Senegal, così chiamato per via della sua abbronzatura derivante dalle anfetamine, il quale si esprime tramite riferimenti alle serie tv animate, i tormentoni di Facebook e Youtube e la commedia trash all’italiana; la Matrona, forse il più colto del gruppo, che cita continuamente grandi opere letterarie; Scabbia, appassionato di hip hop, che parla soltanto attraverso le strofe tratte da canzoni di gruppi rap italiani.
Il quinto personaggio coincide con il narratore e ha il ruolo di semplice osservatore.

 
 
 


Nel romanzo sono raccontate le giornate e le esperienze dei cinque ragazzi fra droghe, discoteche e scuola, ma trovano spazio anche i loro ragionamenti e viaggi mentali. Con questa storia l'autore ha inteso rappresentare una riflessione sulla difficoltà di comunicare e sulla necessità di trovare un linguaggio comune basato su un retroterra condiviso. Naturalmente, il lettore nato tra la fine degli anni '80 e i primi anni 2000 scoprirà un'abbondanza di citazioni, riferimenti, ammiccamenti...

 
 
 

 

Brano tratto da "Prose della volgar lingua"

Le vecchie colonie di Riccione

Quand’ero un bambozzo con le mani tutte impataccate di Nutella mia madre mi cagava sempre il cazzo con la solita antifona: non andare mai sul retro delle vecchie colonie, diceva, che ci sono i d-r-o-g-a-t-i. Adesso i d-r-o-g-a-t-i eravamo noi, e stavamo tutto il santo giorno sul retro delle vecchie colonie con una mina che la metà bastava. Che poi ‘drogati’ è una parola grossa, di quelle che evocano topiche alla Trainspotting o alla Noi i ragazzi dello zoo, con gente che si pianta la siringa nelle vene dello scroto, e fa occludere l’arteria coronarica ai vecchi tachicardici ogni sera di fronte a Studio Aperto, prima che inizino a parlare di Kate Middleton del cane zoppo abbandonato in autostrada o degli assorbenti di Belen Rodriguez. Diciamo, piuttosto, che eravamo, se mi passate il termine, degli sgremoni del porco – per intenderci, una roba molto alla Skins o alla American Trip, se li avete mai visti – e di solito ci dilettavamo improvvisandoci idraulici e maneggiando tubature di vario diametro; e magari ogni tanto, se proprio capitava – ma capitava poco, perché non c’avevamo un roitz che fosse uno – pizzavamo due belle spranghe in scioltezza. E anche quella volta la scena era la medesima: noi altri spiaggiati come narvali sul retro del vecchio edificio, tutto slavato e incrostato di salsedine, e si capiva che ci eravamo già appicciati due giolloni larghi come rotoli della carta igienica: e stavamo manzi come gli sciamani nella tenda.
Sul retro delle vecchie colonie tirava un ventaccio bilioso e ignorante, che t’apriva ragadi nel labbro e scartavetrava via la pelle e i tendini e tutto il resto. Questo perché si era proprio dirimpetto al mare, il quale schiumava come una cala in effervescenza tra gli scogli, e il vento t’arrivava a palma aperta dritto sulla faccia; e noi si stava tutti in crocchio a bubbolare, tinchi rigidi impestati come i merluzzi nel banco freezer, e con le tibie e i metatarsi e le giunture che tartartagliavano le loro geremiadi polari; e ci stringevano l’uno addosso all’altro, nei nostri Moncler e piumini e parka, come sacchi di polietilene in un vicolo, raccolti attorno al solito tavolino sul quale sbrinzavano e scatarravamo ogni due per.
Moffomalpelo era lì che faceva su un jointaccio male, con la sua solita meticolosità amanuense; e anche di più, perché faceva un freddo pagliaccio e le dita andavano per conto loro e bisognava stare attenti a non farsi volare via i caccolini; e tanta era la premura che usava nell’avvoltolare la mappa, da sembrare un’affettuosa genitrice intenta a fasciare il culetto del suo virgulto.
Il Moffo, comunque, con le sue mani di fata, era uno che si raccapezzolava in qualsiasi situazione; e infatti alla fine, taaac!, lo chiuse facile, il piollo, e gli schioccò pure un bacio limaccioso sul filtro, contemplandolo con occhio lagrimoso quasi gli dispiacesse di doverselo cremare. Poscia più che il dolor poté lo scimmione che faceva da matti sull’Empire State Building della sua schiena.
«Chi arrizza appizza e ammazza» salmodiò, con voce ieratica di capo tribù Apache incorniciato da ricco piumaggio del capo, mentre infilzava la bisettrice nell’angolo acuto delle labbra, e le affibbiava una saggia sfregata con il brinzer.
«Oh, quanta ampollosità di litanie!» inveì la Matrona di Efeso, che se ne stava ad acciambellarsi il pelo ombelicale nel suo cantuccio, con lo scafopode di un sorriso che baluginava nel rettangolo scarso lasciato libero dalla sua barba profetica. «Sentitelo, il nostro enfio Deuteronomio, il ponderoso incunabolo. Sempre dietro ad asciugarci il bigolo con le sue insfangabili formule rituali, le sue loffie giaculatorie. Coca cola pepsi cola osso duro vaffanculo! Piuttosto scendi dal tuo minareto, giovane e verboso Ortensio Ortalo, e affina quel cacchio di cannello Bunsen. Mettilo al rogo come uno Jan Palach».
Il Moffo, di sotto la campata del cappuccio, lo guardò come per dire: oh man, come cazzo stai, si può sapere? dio boni: hai due occhi che sembri l’uomo falena, cioè, guardati, porco diesel, stai come i pennarelli della Stabilo, stai, sei marcio come la maionese, e mi vieni a pressare la vita che vuoi appicciare? mi vieni ad alitare sul coppino a questo modo? cioè, no, statti calato, che è meglio, man.
Ma si risparmiò il pistolotto, dacché era uno che preferiva appianare le pendenze senza far sgroppare troppo le tonsille, e più facilmente lo si sentiva grattare uno scataraccio o partire un ruttazzo a mo’ di intimidazione che declamare settenari trochei. D’altra parte sulla sua faccia da pregiudicato slavo, spigolosa come un vomere, e traforata da un paio di zigomi arrotati che parevano quasi dilaniargli le guance, sembrava sempre pencolare una specie di ringhio ferino, uno scatto delle mascelle a stento trattenuto; ed essa era già di per sé un ammonimento che bastava e avanzava: e rendeva superflue le solite garanzie di scrusci di centrelle sul naso.
Perciò si limitò a scoccare una di quelle sue occhiatacce storte, che faceva da sola lunghe e solenni promesse di sangue; con tipo in sottofondo la sinfonia numero uno di Dragon Ball Z, quella quando Goku è tipo faccia a faccia con qualche nemico e sono lì che si scrutano minacciosi; e tanto bastò a compendiare l’esondazione verbale che premeva oltre la sua epiglottide.
Poi il testimone fu ceduto anche alla Matrona che, dal nulla, iniziò a cantare «Prendi il mondo e vai / prendi il mondo e vai». Fu in quella che all’orizzonte apparve un negro. Arrancava curvo e negro sulle dune, afflitto e macilento e sbiadito come un povero Sant’Antonio nel deserto, col braccio sollevato a schermarsi dall’ansimare asfittico del lungomare. Era Senegal, nientemeno: negro e zudro da fare schifo.
Il benvenuto glielo diede la Matrona di Efeso, a suo modo.
«Guardate chi c’è, règaz. Quella brutta fetta di sacker di Senegal. Direttamente dagli intrichi del Congo più negro, il puzza merda».
Senegal ricambiò con un cordiale ma vai a fare i gargarismi con la benzina, oh, scemo di merda, e si insinuò con il suo ebano scremato al centro del nostro gaio simposio.
«Ah ma figa, zio: fate su i tapiri, vi fate?» chiese, aspirando a dismisura l’inconfondibile olezzo dai tubi di scappamento del suo naso alla John Coffey.
«Perché secondo te cosa facciamo, vecchia dolina del Carso?» rispose la Matrona. «Ci diamo fuoco alla dita dei piedi, secondo te? C’attardiamo in sediziosi pensieri sul plus valore?».
«Che tapis è, zio? Il solito pneumatico schecci?».
«Un biscione tipo quello per andare da Re Caio, brutto australopiteco che non sei altro. Un ovulo di nero che arriva diretto dall’intestino crasso di un magrebba come te».
«Figa, oh, mi mandereste mica un sbesgo?».
Eccolo lì Senegal, imbacuccato come uno sherpa sotto tortiglioni di semilucido, con la sua faccia color dissenteria perennemente atteggiata in una smorfia sardonica, come un luccio annidato dietro un canneto in attesa di qualche alborella, una faccia su cui seborrea ed eczemi eruttavano abbondanti in spesse gibbosità, crivellandogli guance e fronte, eccolo lì, lo scemo di merda, a implorarci a gran voce di allungargli uno schioppo, uno schioppo soltanto, bels.
Non ho ancora fatto menzione dell’altro nostro compagno di merende, dell’altra figura effigiata assieme a noi in quel bassorilievo. Era quella vecchia deiezione ambientale di Scabbia, che in quel momento raccoglieva il testimone da Moffomalpelo e se lo portava in ampi pennacchi fumosi alla feritoia in mezzo al linoleum della faccia.
Scabbia era un altro di poche parole, quasi zero. Però, a differenza del succitato Moffomalpelo, che assurgeva a principe del foro qualora qualcuno gli sbiassasse la vita, il vecchio Scabbia apriva bocca di sua spontanea iniziativa: ma solo – e questa era la sua particolarità – per fiottare le strofe di uno di quei suoi gruppi rappettoni del caspio, che gli smadonnavano yo maddafuccka spin that shit tutto il santo giorno nel padiglione auricolare sulla base di un’interrotta beatbox; e le sue corde vocali sembravano quasi regolate da una specie di impianto stereo che s’alzava a manna unicamente per far da risonanza all’acciottolio di rime di un rapper niggaz in canotta. E s’era talmente imparanoiato con quel ticchio dell’hip hop, che cercava di atteggiarsi a maestro di cerimonie del ghetto in tutto e per tutto: e lo vedevi dal tutone di triacetato che gli ricadeva vaporoso sul corpo acuito dall’inedia e le costole sporgenti come tasti di xilofono, le braghe slabbrate e larghe sei volte che avrebbe potuto ricavarci una tendopoli per i terremotati dell’Abruzzo, e le Dunk da zarro che facevano un vallo pan dan con il New Era calcato sulla chioma impomatata di forfora. Il quale Scabbia, avvicinandosi dinoccolato a quel vecchio matroccolo di Senegal, che se ne stava lì ad anelare speranzoso uno sbecco, e sventolandogli la porra sotto alla faccia da lavavetri algerino, espettorò una di quelle sue poltiglie di bolo alimentare.
«La tua ragazza ti rimbalza ed ha già commesso un boing / sette quattro sette non ti passa / non ti passo il joint!»: e così dicendo gli cavò il bonzo di sotto il naso per spiparselo lui stesso di peso. Onde per cui quella vecchia testa di quaglia di Senegal dovette accontentarsi di lappare il cartone, bello unto e sbavazzato com’era.
«Figa che sbatti, zibri: m’avete lasciato lo sgamino. Le solite chiandelle! Ma andate a farvelo accartocciare nel culo dagli arabi!».
Si stette lì a svagheggiare in manzità, mentre ondulanti sommovimenti tellurici scardinavano il nostro corpo dal suo legittimo baricentro. Nessuno proferì motto per un bel pezzo, a parte Senegal, che cercò di scroccarci una zighi, suvvia, vecchi crastoni, una paglia, neanche fosse un rene, figa.
Finché, a un certo punto, il buon Moffomalpelo, che macerava in uno stato di estatica contemplazione, pacioso e riflessivo come un santone buddista sotto al fico, se ne venne fuori con un’uscita da far rivoltare il piloro.
«Il cielo!» disse, e la pomice del suo sguardo, per un istante, si rischiarò nell’ellisse della felpa. «Deo, oh, règaz! Guardate che storia il cielo!».
Noi tutti si alzò per riflesso gli occhi al cielo; ed era un cielo di bitume e catrame, un idrocarburo spesso e impenetrabile e dello stesso colore dell’ineluttabilità, che ti si richiudeva malamente sul cocuzzolo come il coperchio della Vergine di Norimberga: un dramma.
Tutti, alla vista di quel plumbeo carcinoma, che si sfrangiava per chilometri e chilometri in una metastasi di cirri, sentimmo che ci si rattrappivano, nell’ordine, l’esofago, lo stomaco, il buco del culo, tutto quanto.
«L’ultimo incontro per strada mi taglia il collo con lama di spada / mentre guardo il cielo e spero che cada» parafrasò compare Scabbia, e sembrava che un suono straziante, come di un gong, gli squassasse in profondità il torace.
«Figa che presa a male» sentenziò Senegal, ed era davvero una presa a male ai livelli. «Tristezza a palate, zii. Roba che neanche Mariottide live on ponteggio. Io ve lo dico: ogni volta che vengo in colonie a farmi le tube di Falloppio mi si inghippa un laterizio qui nel petto come un cazzo di asma, figa, e non è la mezza Marlboro che mettete nella mista, no. Porca figa, guardiamoci ne li occhi, zii: siamo la più imbarazzante nettezza urbana dai tempi dell’ex Sisas, dei veri pomodori secchi morti alla fermata del Trans, di bruno, zii, e non facciamo altro che starcene in ottomana tutto il giorno a stabaccare sizze una via l’altra o a schinottarci lotti come i peggio ronciosi del Leonca. Non una volta che inzuppiamo il savoiardo, giriamo sempre con la formaggia croccante nelle mutande, a sghelle stiamo a zebra riporto zebra, e se tirassimo le somme ormai avremmo leccato più cartine che fregne. Voglio dire, ci sta anche crocchiare due tapis una volta ogni tanto, e passare un pomeriggio che ci sbatacchia il campanaccio a lessare sul fondo della marmitta. Ma ormai stiamo impanati, scagliati e fumati dalla mattina alla sera, figa, e ogni volta che uno dice bella, facciamo questo, facciamo quello, tutti subito a cantilenare no, zio, che peso, no, e poi chi prende la macchina?, no belz, io rimbalzo, e vaffanzum al secchio. Ve lo dico io, zii: tra dieci anni saremo ancora qui a scammellare grondaie, e nella vita non avremo combinato una cippa di lippa, figa».
Fu Moffomalpelo a porre fine a quel sminuzzamento di vene.
«Oh man, chiudi la fossa biologica, che fa la puzza, va là, dio cristoforo».
«Scemo pagliaccio – si schermì Senegal – guarda che sei tu il peggio rimasto di tutti».
Ma aveva pisciato fuori dal vaso, e al che dovette chiuderla sul serio, la fossa biologica, perché Moffo gli si parò con un muso tipo Clubber Lang quando lancia il guanto di sfida a Rocky.
Inevitabile che, a quel punto, le nostre lingue finissero per ammutolire, travolte e sepolte dalla slavina del silenzio; un silenzio terribile e glaciale, da novantesimo parallelo nord, che quasi sembrava lacerare l’aria; perché tutti, anche quel bastrancontrario di Moffo, sapevamo quanto di vero ci fosse nello sfazzolamento di naso di quella prefica di Senegal; e quel pensiero era un bulino che scavava il cranio, la tortura cinese della goccia che insiste sulla fronte.
La cosa più calzante da dire in quella situazione – che proprio si assicurava perfetta al castone del generale avvilimento – la tirò fuori, dal suo inesauribile cilindro, quel pozzo senza fondo della Matrona di Efeso.
«E gli avvoltoi sulle case sopra la città…», principiò dal niente.
«… senza pietà!» completammo noi altri.
«Chi da quest’incubo nero ci risveglierà…».
«… chi mai potrà?».

E tutti insieme, come cantori liturgici gregoriani, intonammo solennemente la canzone di Ken il Guerriero, come fosse stato un inno nazionale: e sembrava che fossimo tornati a quando eravamo ancora alle medie, e ogni sera lo guardavamo su Italia 7 Gold, e ce ne andavamo in giro sferrando colpi delle cento lacerazioni, uatàtàtàtàtà, a destra e manca.
«Vi giuro, règaz – continuò poi la Matrona, e un rantolio d’esasperazione serpeggiò nella compagine, perché voleva dire che il vecchio stolone stava per sdrabiarci l’anima con una delle sue omelie, un monologo pugnettone a due mani tipo Pierluigi Bersani che parla della ripresa economica – uno scoramento tale neanche a leggere quell’attacco cardiaco di libro che è La Strada. Non quella di Kerouac, quello scoppiato di merda, per carità di Dio, non confondiamo il legume produttivo con l’aglio di bassa cucina. No, io dico La Strada di McCarthy. Un umor vitreo che dopo trenta pagine ci vuole già un pero di valium endovenoso, per ripigliarsi di tutta la presa a male. Ma sì, La Strada di McCarthy, règaz. Peggio del pugno del pentimento di hokuto dritto in pancia. Perché mi guardate così? Già, dimenticavo di parlare con gli ultimi quadrumani della scala evolutiva. Quivi è l’oste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio e due fornaciai. Con questi m’incaglioffo. Oh mia dea!, Donatello chez les fauves. Comunque, règaz, sapete che parola m’è piovuta or ora dentro all’alta fantasia, ed è una parola che non uno osava e nessuno avrebbe detta, e ci sta un vallo e mezzo bene adesso come adesso? Horror vacui. Proprio così. Solevano dirla i greci, questa parola, anche se in realtà, cioè, insomma, sarebbe un latinismo, gli stessi greci che c’avevano pippa al culo di qualsiasi elucubrazione non disegnasse rotte circolari e tornasse indietro a mordersi la coda, règaz, tipo uroboro o ciclo biologico di Polibio o è una giostra che va o che ne so. Si cagavano in mano, di peso, tipo Louis Ferdinand all’esame di riparazione, se pensavamo al tempo rettilineo e infinito, sì dai, come un’ascissa che non si vede la fine, così come lo intendiamo noialtri Ciro di Pers. C’avevano scagazzo dei vibrioni, dei granuli di polline, della mistione di argon e krypton disciolta nell’atmosfera. Ecco cosa ci imperla la fronte di ghiaccioli a noialtre pausemerde: smanacciare tutti i giorni il vuoto, e realizzare che è, e resta, il solito impalpabile e ineffabile vuoto. Un nulla brullo. Un brullo nulla di nulla, checché ne dicano Cartesio e il principio di indeterminazione. Vide dans le vide. Il nucleo desolante degli emisferi di Magdeburgo. Onde per cui, di fronte a questo stato di cose, a questo stato che perdura e ricorda l’esilio, ci sentiamo come se avessimo dei bracciali di algamatolite ai polsi, come Byron presso le acque del Lemano, un tremore fin nell’etterno rezzo, e questa voglia di svomare, svomare anche la cistifellea, la volpe a nove code di Naruto che preme per uscire, lo stomaco ribollente come arsenale veneziano e i frequentativi di conato che lo spiegazzano. Chiamatela abulia, chiamatelo prolasso, chiamatelo Belacqua svaccato al suo gran petrone: sono i marosi intestinali di Jean Paul che fanno tutt’uno col caffè e le bretelle, la volpaggine con bolla al naso di uno Slowbro qualsiasi. Noialtri pudibondi in palandrana, sempre in ritardo sulla guerra, ma sempre nei dintorni di una vera nostra guerra».
Così disse – e la logorrea era un profluvio incontrollabile dall’ugello della sua bocca – ma nessuno ci capì una sega, poiché la Matrona di Efeso era un intellettualoide occhialuto e barbuto, che a forza di stare col naso appiccicato ai libri aveva contratto una scogliosi che lo incriccava come una cuspide; e usava un lessico talmente aulico che sembrava di ascoltare il doppiaggio italiano dei Cavalieri dello Zodiaco; tanto che a volte, quando parlava del più e del meno, imboccava corsie tangenziali che solo lui sapeva come, e a quel punto nessuno se lo cagava più neppure di striscio.
In ogni caso, non so per quale motivo, a quel suo criptico divagare in talmud, mi ritrovai incagliato malamente in un mio fiordo mentale: e cioè avevo come l’impressione che davvero l’umanità intera fosse stata cancellata – da cosa di preciso non so, apocalisse, uragano, profezia Maya, fate vobis – e che in tutto il globo terracqueo fossimo rimasti soltanto noialtri cinque babbi di minchia – nudi e soli e indifesi come girini – sotto gli anelli benzenici di quel cielo marruso, rabbuiato dai fumi del polonio e da esalazioni sulfuree, e le mie ispide setole inguinali furono tutte elettrizzate da brividi freddi come di malaria. Panicopapanico papanico paura.
Poi sulla bocca di compare Scabbia crepitò un’altra dotta citazione, la quale faceva più o meno così: «Chi dice che il cielo è il limite sappia che non è vero / io bevo bibite col Pampero e spingo il pensiero più in là del cielo».
E più in là del cielo – aguzzando lo sguardo di tra le coltri potemmo scorgerla – c’era un’asperità montana plutonica e scoscesa, che s’ergeva come una balaustra sulla cagliata dell’Adriatico, scotennata da una bava di nubi madreperlacea; ed era la vetta del San Bartolo.
«Volgete gli occhi» esclamò la Matrona di Efeso, levandosi estasiato gli occhialozzi tutti impiastricciati di ditate, e additando il profilo rupestre che si innalzava nel cielo. «I monti Mackenzie, il passo dello Stambecco, millecinquecento gradini scolpiti nel ghiaccio. Un giorno sfideremo quelle falesie, ridiscenderemo le balze più impervie di quella Bismantova, excelsior!, puntando dritti al Nord, allo Yukon. Fino al Fosso dell’Agonia Bianca, laggiù, mie care frittate, la nostra meta agognata… non è l’oro che cerco, ma il trovarlo mi rapisce!» e neanche stavolta fu possibile capire in quale pelago fosse andato a inabissarsi, quale fumoso iperuranio stesse sorvolando, se ci era o ci faceva, la vecchia zampogna.
A Moffomalpelo, invece, la visione del rilievo montano suggeriva una cosa e una soltanto.
«Secondo me, dio caio, ti ci masi un serraglio un vallo tattico su quei greppi – osservò, come se davvero stesse accarezzando l’ipotesi – Dio boni! Uno si piantuma la sua idroponica bella lussureggiante, sta attento a non fare il boccalone in giro, e dieci a uno che i pulotti non lo sgamano mai. O no?».
Del resto per lui la vita non aveva senso che come ping pong continuo di giansugosi, e altro odore non aveva che quello delle cime messe a essiccare nell’armadio.
Rimanemmo lì ad acconciare bambole, un vallo pollegge come alghe nel brodo primordiale, finché i coglioni non misero su il muschio, e il cielo a quel punto era ormai tutto imporporato di mestruo. Ci scrostammo, con le facce madide di raccapriccio e di sangue.

(...)

 

 

Lorenzo Muccioli è nato a Cattolica l’08/05/1990 e risiede a Misano Adriatico.
Studia Lettere Moderne all’Università di Bologna.
È iscritto all’Ordine dei Giornalisti pubblicisti e ha lavorato come cronista presso alcune testate.

Questo è il suo primo libro.