i quaderni di Cico
 
 

 



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titolo: "Storia di orti funerali e comunisti"

collana i quaderni di Cico
autore: Renato Bergonzi
ISBN 978-88-32124-05-7
© 2019 - € 12,00 - pp. 152
In copertina, immagine originale di Andrea Tarli (www.andreatarli.it)
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Nella vita di Attilio due sono le cose importanti. Il suo piccolo orto, acquattato tra le montagne, e il Partito. Passioni tramandategli dal padre. Partigiano e contadino. Ricordati Attilio, il Partito è come la famiglia, anzi certe volte è più importante. E Attilio è cresciuto dentro questi insegnamenti. Ha imparato a distinguere i funghi buoni da quelli velenosi.

(continua)


 

(segue)

Ha preso coscienza di che cosa significhi credere davvero in un ideale.
Quando il suo partito decide che è ora di cambiare sia il nome, diventato imbarazzante, sia la politica, Attilio entra in una crisi profonda. Non sa come uscirne. Il padre non c’è più e dovrà cavarsela da solo. Non rinnova la tessera, che teneva nel portafoglio insieme alla carta d’identità. Si dedicherà anima a corpo alla coltivazione dell’orto. E ai ricordi. E alla nostalgia. Ma una tempesta metterà in pericolo la comunità della valle. E Attilio a quel punto dovrà prendere decisioni coraggiose.


 

 

Leggi la recensione di Claudio Della Pietà per Satisfiction.

 

 


Brano tratto da "Storia di orti funerali e comunisti".

(...)


L'orto dei Beudi si trovava in una buona posizione.
Esposto a sud. Appiccicato all'ansa del torrente, nel punto dove l'acqua alta lo rendeva solitamente tranquillo e lento.
Si estendeva su due piani tenuti in piedi da un muretto a secco, che durante le forti piogge di autunno subiva piccole frane e cedimenti che dovevano essere immediatamente riparati, per non subire danni peggiori.
Le pietre di quei muretti erano solidali. Una reggeva l'altra. Una piccola falla poteva significare l'inizio di crolli molto gravi.
Se erano mal messi, significava abbandono.
Distava circa trenta minuti dal paese.
Lasciata la carrozzabile si doveva percorrere a piedi un sentiero di terra, stretto, che in quindici minuti portava nell'orto.
L'inizio del sentiero metteva alla prova i muscoli delle gambe e tutto il fiato che uno aveva in corpo.
Saliva con impertinenza sino alla base della montagna, per poi scendere quasi a picco verso il fiume, nella valle degli orti.
Quelli del posto chiamavano la zona i beudi, per via dei piccoli canali che portavano l'acqua nei campi.
Non era grande, ma produceva le verdure necessarie per sopravvivere.
Due vecchi alberi, un fico e un caco davano una quantità generosa di frutta che da solo non riusciva a consumare.
Nella parte esposta a nord, protetta da una protuberanza della roccia, che scendeva sino a formare una tettoia naturale, un casotto di legno conteneva, dentro un disordine apparente, tutto quello che è necessario per mantenere un orto. Piccoli attrezzi da lavoro, sementi varie e spago o fil di ferro, del tipo morbido, che serve per legare le piantine ai diversi supporti di legno, chiodi e altri piccoli oggetti che la fantasia e l'esperienza sanno come utilizzare.
Una brandina, appiccicata a una cucina economica alimentata a gas, rendeva il capanno abbastanza accogliente.
Nella bella stagione, quando il clima mite permetteva di passarci la notte, restava giorni e giorni senza scendere a casa.
Si alzava al primo albeggiare per godere della frescura che saliva dal torrente. Un odore dolce e umido, che contrastava con quello pungente del rosmarino.
Se fosse stato luglio tutto l'anno, si sarebbe rintanato lassù per il resto dei suoi giorni.
Il piacere per la solitudine gli era cresciuto dentro a poco a poco e non lo aveva più abbandonato.
Ne approfittava per pensare al babbo e a tutte le cose importanti che gli aveva insegnato.
Era stato suo padre per primo a fargli scoprire connessioni tra mondi diversi.
Tra teorie socialiste e la coltivazione dell'orto.
Al babbo piaceva spiegare in modo semplice le cose complicate.
Sfidava se stesso nel trovare similitudini tra il mondo delle idee e la vita concreta.
Quando il sole picchiava duro sulle terre dei beudi, lui e il babbo si concedevano una pausa sotto il fico.
Seduti uno accanto all'altro si facevano compagnia e parlavano di tante cose. Dei segreti della terra, di come riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi, di cosa è giusto e sbagliato. Della vita di una volta e di quella di adesso.
Che cosa ami di questa terra? Lo interrogava il babbo, mentre ne raccoglieva un po' tra le mani e la sbriciolava lentamente con le dita.
Attilio ci pensava su prima di rispondere. Non voleva deludere suo padre.
Quando sono qui sto bene. La terra mi fa compagnia, diceva intimidito, senza alzare lo sguardo.
È una bella risposta, rispondeva soddisfatto suo padre, mentre lo confortava con la sua mano callosa poggiata sulla spalla.
Tra questi boschi puoi apprezzare che la solitudine non sempre è una brutta cosa. Tanta gente ne ha paura e la evita come la peste. Magari rinuncia ai propri ideali per il terrore di rimanere isolato.
Comprendi Attilio quello che voglio dire?
Anche se era molto giovane, Attilio capiva benissimo, perché con le cose dell'orto ci sapeva fare.
Amava il suo orto per così tante ragioni, che non avrebbe saputo elencarle tutte.
Apprezzava le sue piccole dimensioni e la posizione fuori mano, un po' appartato. Come se si vergognasse della sua pochezza.
Diverso dai grandi campi agricoli, che costeggiano le strade principali o occupano spazi che confinano con le aree urbane.
Dentro quel piccolo perimetro, dove i mezzi meccanici erano inutili, le braccia stabilivano un rapporto carnale con la terra. La fecondavano con il sudore.
La sua relazione con l'orto era complicata.
Gli parlava come si fa con un amico. Lo coccolava, gli confessava le proprie delusioni e lo mandava a quel paese, se necessario. Oggi non è giornata eh? Lo ammoniva in modo brusco.
Era convinto che ogni orto avesse una propria identità. Come le persone.
Anche se situato in aperta campagna ha bisogno di essere delimitato da una protezione, che ne segni il perimetro e lo differenzi dagli altri.
Un orto che si confonde con il resto della natura è destinato a morire, affogato dentro le erbacce.
Quanti compagni pensava Attilio, intervenivano alle riunioni per il solo fatto di segnalare la loro presenza.
Non dicevano un bel niente, ma alla fine del loro discorso si sentivano soddisfatti. Si erano fatti notare.
Uscivano dalla sezione con un sorriso stampato, che si portavano sino a casa.
L'anonimato è peggio della malattia.
L'orto richiede un'attenzione continua, simile all'affetto che si dona ai propri figli o alla donna amata.
Quando Attilio se ne stava appartato in quel pezzetto di terra, gli sembrava di essere in famiglia o al partito che poi era la stessa cosa.
Al funerale di Vittorio, il vecchio partigiano che aveva combattuto su quelle vallate, la tristezza si era mescolata alla soddisfazione di constatare che c'erano tutti quelli che dovevano esserci, al di là delle solite beghe ideologiche.
La morte di un compagno li univa per un giorno.
In quel frangente le piccolezze della vita non avevano alcun senso e anche i più mediocri trovavano l'ispirazione per innalzare i propri sentimenti a un livello accettabile.
Coloro che si erano accapigliati sino a tarda notte per fare prevalere le proprie parole d'ordine, ora stavano fianco a fianco, appiccicati l'uno all'altro, sorpresi di condividere una totale impotenza.
A turno avevano fatto la fila per gettare dentro la fossa qualcosa che ricordasse la storia che avevano vissuto.
Un gesto semplice, per sconfiggere l'angoscia che li prendeva tutti.
Un inconfessabile desiderio laico di aldilà.
Che la salma potesse portare con sé, chissà dove, un ricordo di amicizia e condivisione.
Piccoli oggetti insignificanti ai più, ma carichi di ricordi e testimoni di imprese epiche che avevano condiviso.
La spilletta con la bandiera rossa o con l'effige di Lenin che avevano acquistato nel viaggio a Mosca e Leningrado, organizzato dalla federazione.
Oppure la tessera scaduta del partito.
Una volta qualcuno mise sulla bara di un compagno la copia sgualcita del Manifesto del partito comunista.
Chi non aveva nulla lasciava un ultimo saluto. Anche quelli che se ne erano stati per tutta la funzione a parlare dei fatti propri.
Alzavano il pugno chiuso durante la sepoltura e si sentivano differenti dalle esistenze altrui.
Eroi, immersi in una dimensione che sta un poco al di sopra del genere umano.
Il trionfo di una spiritualità che poteva fare a meno di Dio.
Anche se quest'ultimo sentimento così radicale era appannaggio di pochi.
La maggior parte degli iscritti al partito si accontentava di stare con i piedi per terra e fare le cose che facevano tutti.
Battezzava i propri figli e si sposava in chiesa, pur non frequentando le funzioni.
I più istruiti compativano quei cortei funebri guidati dal prete che prometteva salvezza eterna.
Le note dell'Internazionale suonate dalla tromba di un compagno salivano in cielo e creavano un'armonia che faceva ben sperare per il futuro.
"Su lottiam l'ideale..." riempiva la mesta atmosfera con una brezza gonfia di orgoglio.
Che bello se fosse sempre così. Tutti uniti, accomunati dal dolore e dalla pietà.
E quella volta che Adriano si era buttato nella fossa per abbracciare la bara avvolta dalla bandiera rossa, quella volta aveva fatto bene a tutti loro.
Non si voleva staccare, e i compagni più risoluti avevano fatto fatica prima di averla vinta sulle sue forti braccia avvinghiate alla bara.
Quando lo tirarono su aveva le scarpe impiastricciate di fango.
Sempre noi a lasciarci la pelle, borbottava incazzato verso coloro che lo avevano aiutato.
Il responsabile della sede provinciale scuoteva la testa in segno di disapprovazione, ma la maggioranza dei presenti era commossa.
Al momento lo aveva interpretato come un gesto spontaneo, pieno di coraggio e di amore.
L'attaccamento agli ideali, all'amico scomparso.
Il dolore incontenibile per la perdita definitiva aveva vinto sul senso di dignità che ogni uomo si porta addosso.
Poi, ripensando alla scena aveva iniziato a dubitare.
E se fosse stato il gesto disperato di chi si aggrappa al passato con tutte le sue forze?
Di chi non vuole accettare il presente che non lo soddisfa? O ha paura di un domani incerto?
E se invece fosse un rifugio contro il dolore che ti attanaglia senza scampo?
Anche questa versione dei fatti era accettabile.
E se questa fosse stata la verità, pensava, che cosa c'era di male?
Chi non vede nulla di buono per il futuro, si aggrappa alle cose del passato e se questo allevia il panico, e riempie un vuoto profondo, allora si ripeteva, che cosa c'è di tanto negativo?
Essere considerati nostalgici significava perdere di credibilità. Ma questo succedeva perché erano i vincenti a stabilire le regole. A distinguere ciò che era giusto e utile alla causa, da ciò che portava a una prevedibile sconfitta.
Pensieri, pensieri inutili che doveva per forza tenere per sé.
Come si fa a essere comunista e non avere fiducia nel futuro?
Questo era un ragionamento logico però.
Perché allora non riesco a comportarmi secondo la logica?
Ci fosse papà, diceva mentre alzava gli occhi al cielo, saprebbe come consigliarmi.
Se avesse portato in sezione questi dubbi lo avrebbero guardato con commiserazione.
Il compagno ha scoperto una nuova teoria sul materialismo storico. La teoria dei funerali.
Se li immaginava i compagni a scambiarsi sguardi ironici, a darsi di gomito e a inventarsi qualche soprannome che gli sarebbe rimasto appiccicato addosso per tutta la vita.
Eppure ne era sempre più convinto, ai funerali si prova una sensazione di appartenenza che appaga e che fa bene allo spirito di numerosi militanti sempre più dubbiosi o stanchi.
Se non pensassi di essere frainteso consiglierei ai tanti delusi dal partito di frequentare tutti i funerali dei compagni.
In quel frangente lo sguardo è rivolto al passato e ai momenti più eroici che ognuno ha vissuto con il morto.
Sarà per la consapevolezza che tutto quello che doveva succedere è successo, non c'è altra spiegazione. La mente si libera di tutte le difese ideologiche e comincia a ragionare sulle cose vere, importanti. Anche le esperienze negative assumono una veste velata che ne smussa i contorni più pungenti. Il ricordo vola verso le azioni epiche condivise.
Il corpo disteso dentro la bara, con le garze che spuntano dalle narici ormai inutili, sprigiona un sentimento di solidarietà che è difficile provare per un corpo vivo, forte e pronto a combattere.
Ogni volta che un corteo funebre si concentrava nella piazza antistante la camera ardente, non poteva fare a meno di stimare quante persone ci fossero.
Confrontava il funerale con altri cui aveva partecipato e soppesava quale avesse avuto più partecipanti.
Era un'abitudine che lui e i compagni avevano acquisito durante le manifestazioni.
Stimare il numero delle persone e confrontarlo con altre organizzate da loro stessi o dagli avversari politici.
Chissà quanta gente verrà al mio, disse tra sé, mentre immaginava la scena.
Un lungo corteo marciava lento con i pugni chiusi dei compagni rivolti in alto, e le bandiere al vento e il suono triste della tromba che innalzava al cielo le note dell'Internazionale, ed era la cosa più bella che potesse pensare in quel momento della sua vita.
C'erano tutti quelli che dovevano esserci.
Anche i rappresentanti degli altri partiti.
Non aveva ancora deciso chi avrebbe letto l'orazione funebre.
Ma per questo dettaglio pensò che avrebbe avuto ancora tempo per prendere una decisione.

(...)



 

Renato Bergonzi è nato a Sanremo nel 1952.
Laureato in Sociologia, già dirigente presso i Comuni di Ventimiglia e Sanremo
nei settori Turismo e Cultura e Servizi sociali, ha pubblicato:
Nulla sanno (Chinaski, 2008); Dolce non è (Giovane Holden, 2012);
La luce su in paese (vincitore del Premio nazionale "Parole di terra", Pentagora, 2015).