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Federico Benedetti

Euridice

(di Claudio Cazzola)

Come si debba classificare questo libro - visto il bisogno sempre impellente delle scansìe ove collocare i prodotti - è ben spiegato nella quarta di copertina, laddove si indicano tre direttrici diverse e nel tempo stesso intrecciate di lettura, quella del romanzo d'amore, poi la matrice stendhaliana, infine il filone iniziatico.
Detto questo, il compito del lettore potrebbe già considerarsi concluso, una volta ben impacchettato il testo, che non disturbi più.
Tuttavia rimane, se lo si vuole, un campo inesplorato da indagare, che ha a che fare con la "simpatia" (alla greca: "soffrire insieme"). In nome di tale valore senza aggettivi, che permette l'interscambio fra l'autore ed il suo pubblico ed anzi in qualche modo lo autorizza, scelgo una sola pagina che chiamo a testimone subito, senza perdere tempo.
Ci troviamo circa a metà del racconto, allorchè "il nostro eroe" - come lo chiama il narratore - decide di impedire ad Euridice la via di fuga davanti all'impellenza del cosiddetto rapporto completo, individuando come propria isola privilegiata per l'evento l'appartamento dismesso di nonna Aldina, definito "Quella tana nascosta nel labirinto dei tetti della città vecchia" ad incipit di pagina 57.
Leggiamo:

Sprofondato in una poltrona sfondata, unico mobile dall'apparenza confortevole in quella catapecchia abbandonata, egli aspettava Euridice, fingendo a se stesso di leggere un libro o di pensare ad altro che a quel corpo su cui si sarebbe avventato di lì a poco.

L'habitat è sapientemente costruito sull'assedio del "ciarpame reietto" di gozzaniana memoria - poltrona sfondata a parte, si legga, più sotto, tutta la descrizione dell'appartamento come "un improbabile labirinto di soffitti bassi, livelli sfasati e muri storti, approssimativamente intonacati e dipinti": un luogo non-luogo, ove anche la volontà apparentemente si smarrisce in azioni non volute o senza senso come leggere un libro laddove libri non ce ne sono. Avanti:

Il campanello. Da lassù apriva elettricamente il pesante portone di legno scuro da cui la sentiva entrare ecc.

La distanza, abissale, fra il sottotetto e l'ingresso sulla strada è sottolineata dalla presenza di un "pesante portone di legno scuro" proprio come quello di un maniero medievale, minaccioso ed imponente - tale il palazzotto di don Rodrigo di manzoniana memoria. E veniamo all'epifania:

E mentre ascoltava i suoi passi rapidi salire la scala buia e sgangherata, un suono, una sensazione sovrastava tutte le altre, scaraventandolo in un vortice di panico gioioso, di confusione di spirito che lo faceva vibrare come il diapason di un altro pianeta, ignorante di ogni temperamento e di ogni scala a sette settanta settantamila suoni. Era il suo cuore, su cui i piedi di Euridice battevano strisciavano salendo le scale; quella pulsazione di una folle pesante leggerezza, che l'agitava così dalla testa ai piedi, annebbiandogli la vista stringendogli la gola mettendogli i brividi, fu per sempre il più bel ricordo di Euridice, l'amore stesso, e volte innumerevoli sognò di riprovare un giorno tanta emozione all'idea di stringere una donna tra le proprie braccia.

La delicatezza della rappresentazione di un movimento duplice - quello dell'orecchio di lui che scende la scala sgangherata verso il rumore dei passi di lei che sale - fa catapultare il cuore del nostro eroe sotto i piedi di Euridice, che in tal modo cammina letteralmente sull'intimità dell'altro, ormai prostrato dall'attesa e del tutto sconfitto: ed ecco la callida iunctura ottenuta con l'antitesi "pesante leggerezza" che solo la follia di chi è preda delle Muse può avvertire. Questo tratto testuale è autentica poesia, accostabile senza remora al carme 68 (sezione detta anche 68b) di Catullo, laddove il poeta ricorda, memore e grato per sempre, l'amico Allio che gli ha, un giorno luminoso, prestato la propria casa per l'appuntamento - anzi, l'Appuntamento:

Is clausum lato patefecit limite campum,
isque domum nobis isque dedit dominae,
ad quam communes exerceremus amores. (vv. 67-69 edizione oxoniense)

"Egli" afferma Catullo "mi squadernò il campo sbarrato aprendomi la porta, / egli pure concesse la sua casa a me ed alla mia padrona, / una casa presso la quale potessimo dar libero campo al nostro amore". Trovata dunque l'isola di sogno, ecco l'arrivo di lei (vv. 70-76):

quo mea se molli candida diva pede
intulit et trito fulgentem in limine plantam
innixa arguta constitit solea,
coniugis ut quondam flagrans advenit amore
Protesilaeam Laudamia domum
inceptam frustra, nondum cum sanguine sacro
hostia caelestis pacificasset eros.

"In tale luogo" continua il poeta "giunse la mia dea splendente con il suo piede leggero, e fermò la pianta del suo piede splendida sulla soglia, facendo con il sandalo arguto un leggero scricchiolìo, proprio come quando Laodamia ebbra d'amore, un tempo, pervenne alla casa di Protesilao - un matrimonio male iniziato, visto che nessuna vittima sacrificale aveva ancora placato gli dei con il suo sangue consacrato". La suola della calzatura indossata da Lesbia (solea) emette un suono inconfondibile per chi l'attende (arguta), quando la fanciulla-dea ferma il piede sulla logora soglia (trito in limine): come si può notare, vi sono gli elementi della rappresentazione, tutti, rivissuti attraverso il filtro sapiente del narratore di Euridice, che il questa pagina appunto, in modo sublime, adopera da par suo quella cultura classica di cui continuamente lamenta il pessimo studio compiuto durante gli anni di liceo classico. Catullo associa l'incontro suo e di Lesbia a quello di due personaggi del mito: la promessa sposa Laodamia entra nella casa del fidanzato Protesilao troppo presto, senza cioè che siano stati compiuti i regolari riti matrimoniali - ecco spiegata la punizione conseguente degli dei, che fanno uccidere lui, primo fra gli Achei, subito dopo lo sbarco presso Troia. Sotto il segno della tragedia dunque avviene la conoscenza del corpo dei due amanti, e nel mito (Protesilao e Laodamia), e nella poesia latina (Catullo e Lesbia), e infine nella città di pianura maledettamente e miracolosamente simile a quella di De Pisis, di Bassani ed ancora prima di Ludovico Ariosto.
Se è lecito aggiungere una quarta linea di lettura, allora, colui che qui si firma oserebbe affermare che Euridice è un romanzo mitologico, laddove il mito è, pavesianamente, specchio dell'anima - di Orfeo, del Narratore, dell'Autore e, da ultimo, del Lettore.

 

Claudio Cazzola