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"Sopravvivere a un angelo"

di Lucio Figini

intervista di Giuseppe Iannozzi all'autore

1. Il tuo esordio, come narratore Cicorivolta edizioni, Lucio Figini, è avvenuto con “La discendenza dell’acqua”, un romanzo che definirlo – in maniera semplicistica – un ‘giallo’ non è a mio avviso possibile, siamo difatti di fronte a una sorta di “esplorazione condotta all’interno delle latebre umane senza dimenticare mai il territorio geografico”. Parlando del tuo romanzo, tra le altre cose, ebbi modo di sottolineare: “Ariel, spirito dell’aria, personaggio de La Tempesta di William Shakespeare; ma Ariel è anche un nome ebraico e biblico, più volte citato nelle Sacre Scritture per indicare la città di Gerusalemme. Nel ventinovesimo capitolo della Bibbia, Ariel fa la sua apparizione come ‘Leone di Dio’; ed ancora Ariel designa una schiera di angeli o più semplicemente uno spirito angelico. Nel misticismo e nella letteratura apocrifa giudaico-cristiana Ariel è un arcangelo, o anche l’angelo della creazione, della cura e dell’ira. […] Lucio Figini investiga l’animo umano come un novello Oliver Sacks; ed è proprio questa la grandezza del romanzo di Figini, che muove i suoi passi soprattutto all’interno del non poco insidioso territorio dell’Anima, o della Psiche che dir si voglia.”
Prima di parlare di “
Sopravvivere a un angelo”, che è abile commistione di elementi noir e fantasy, vorrei che spiegassi ai lettori qual è stata la genesi de “La discendenza dell’acqua”.


La genesi, come tu ben definisci, utilizzando un termine che prediligo, de “La discendenza” è da ritrovarsi nel fascino di poter vivere altre delle mie ipotetiche vite. Ci sono uomini che, pur soddisfatti della propria esistenza, hanno un’incazzatura di base per avere a disposizione una sola vita da esaurire (e ai quali, pur assaporandone ogni sfaccettatura, non basta). Io faccio parte di questi. Mi sono destrutturato di ogni maschera, educazione, vestito, per mettermi in un nuovo percorso e camminare. È stato il primo romanzo in cui ho imparato che l’autore può “essere” all’interno di una storia e di un personaggio, senza inficiarlo con il proprio esserci. In sostanza, portando il lettore non tanto a leggere ciò che prova il protagonista, ma a “vedere” ciò che vede il protagonista, arrivando a toccarne i sensi e non solo le aree cognitive.
Ero a Sestri Levante quando una sera, inaspettatamente, mi ha raggiunto la mente il ricordo di una bambina di tanti anni fa, che mi era stata affidata (nella comunità di preadolescenti dove lavoravo). Non parlava e si nascondeva in ogni angolo della stanza, all’ombra, il suo sguardo e le sensazioni che ho provato allora mi sono rimaste dentro. Così ho iniziato a scrivere una storia. Questa bambina non aveva nulla a che fare con Ariel (come passato o altro), per cui ci tengo a sottolineare che la genesi del romanzo non si trova in un “fatto”, ma in una “sensazione” (ugualmente reale). Io stesso sono quanto più vicino e insieme lontano da Francesco come approccio terapeutico con le persone portatrici di disagio, diciamo che so fingere meglio che stare dall’altra parte del muro significa “essere sano”.

2. In “Sopravvivere a un angelo” ritroviamo il protagonista del tuo primo romanzo, ma questa volta Francesco vive in un mondo ‘di sotto’, forse in una Milano alternativa e infernale dove niente è come sembra. Vivere nella Milano ‘di sotto’ non è facile, i pericoli sono tanti: gli ospiti della Milano ‘di sotto’ sono variegati e tutti braccati da quelli che, in apparenza, sembrano essere degli angeli. C’è stato un cambiamento radicale per Francesco ma anche per la tua storia iniziata con “La discendenza dell’acqua”: adesso il lettore è immerso in un mondo alieno, che, in alcuni tratti, ricorda quel mondo fantastico di Neil Gaiman ritratto in “Nessun dove”.

Francesco è sempre Francesco, la sua follia si è solo evoluta, o meglio involuta. Mi spiego meglio. Chi ha letto “La discendenza” è rimasto spiazzato, si aspettava tutta un’altra cosa, ma la continuità è proprio nel cambiamento. Francesco portava in sé tratti ossessivi, che quasi sfociavano nella psicosi, manie di controllo sul mondo che percepiva attorno a lui. L’incontro con Ariel e col suo passato gli ha permesso di comprendere che nulla è controllabile. Di conseguenza lascia “dall’altra parte” questa sua caratteristica, ma solo per affrontare (in “Sopravvivere a un angelo”) il nucleo più atavico della propria follia (che ovviamente vuole fare da specchio alla follia umana). Rimane sempre un eroe atipico che lotta costantemente con i suoi demoni, le sovrastrutture, il potere precostituito, in sostanza l’ineluttabilità del fato. Francesco è un semplice uomo che non vuole accettare il “non scegliere” e questo lo rende un “diverso”.

3. In “Sopravvivere a un angelo” descrivi un mondo dove sembra imperi il male assoluto, dove un amico fa presto a voltarti le spalle e dove la sopravvivenza è appesa a un filo: il solo modo per riuscire ad arrivare al termine della giornata è di dar credito a tutta la propria forza di volontà, spesse volte ricorrendo a un atavico istinto di violenza per non finire schiacciati dalla violenza promossa dagli angeli, che si comportano come dei veri e propri squadroni delle SS.Tra le righe de “La discendenza dell’acqua” e di “Sopravvivere a un angelo”, tu, Lucio Figini, hai voluto anche lanciare un allarme sociale?

Il romanzo può essere letto a più livelli, per alcuni è una semplice storia di azione, fantasy o fantascienza che dir si voglia, per altri una fiaba metropolitana, un mistery, un noir, per altri ancora (e sono i lettori che prediligo) una storia “visionaria”, dove la ricerca antropologica dello spirito umano (o come tu hai ben detto “la psiche”) va a braccetto con un personale approccio sociologico. Quando un uomo può fare tutto senza pagare per le proprie azioni, quale parte di sé esce? Francesco è il buono o il cattivo della storia? E poi siamo tanto sicuri che questa distinzione esista? Le nostre scelte da quale antico meccanismo derivano, solo pura sopravvivenza o qualcosa di “altro”o di “oltre”?
Vorrei riportare l’opinione di un lettore, che può rispondere alla tua domanda: “Descrivi una società in cui nessuno fa niente per niente, in cui una mandria di pecore vive di automatismi senza porsi troppe domande, forse perché queste rappresentano un problema quando sono senza risposta e più di uno se una risposta ce l’hanno già. Questo parallelismo tra la società reale e quella del romanzo a me è risultata interessante, anche se non mi ha fatto piacere constatare che in effetti troppo spesso chiudiamo gli occhi o volgiamo lo sguardo altrove per non vedere situazioni ingiuste ma che non scalfiscono direttamente il nostro benessere. Ma probabilmente questo parallelismo non sarà un problema… in fin dei conti lo leggeremo, diremo qualche frase ipocrita e poi… be’, poi ci gireremo dall’altra parte e continueremo a preoccuparci delle nostre inezie, a ragionare come se tutto ciò che di negativo c’è al mondo succedesse lontano da noi, sempre troppo impegnati per renderci conto che l’Umanità è la causa prima dei suoi mali.”

4. Tu, Lucio Figini, lavori in un ambito psichiatrico e socio educativo. Come e quanto la tua preparazione professionale ti è servita per dar anima e corpo ai tuoi romanzi?

La mia preparazione professionale mi è servita, ma solo in parte. Diciamo che il mio vivere quotidianamente un lavoro basato sulla relazione con le persone, con il disagio, la malattia, la diversità, è stato fondamentale non tanto per i miei romanzi, quanto per la mia personale “interpretazione dell’animo umano”. Senza contare che ho avuto e ho modo di confrontare la follia “diagnosticata” con quella invece dei cosiddetti “normodotati” e questo mi ha permesso di comprendere che non sono tanto diverse. Il mio Francesco è un folle, o per lo meno è quanto di più lontano ci possa essere da un sano, ma, scusa la citazione “c’è della logica in questa pazzia” (Amleto) e tutto quello che fa nella “Città” lo prova.

5. Ci sono degli autori in particolare ai quali hai guardato per conferire spessore al tuo stile nonché alla tua fantasia davvero particolare, unica, e per molti versi innovativa?

Per prima cosa: grazie. La fantasia non mi è mai mancata,in effetti, ma la definizione di innovativa mi lusinga. Le mie contaminazioni sono davvero varie e spesso contraddittorie. Nasco tra Pirandello (come analisi psicologica dei personaggi), Dino Buzzati (come fascino del mistero e del surreale) e Hesse (come descrizione dei luoghi e dei contesti). Fino ad arrivare a Dick e a altri autori di quel filone che io amo definire socio – psico – fantascientifico (americani e non solo degli anni ‘60 e ‘70), generalmente sconosciuti dal grande pubblico (Friz Leiber ad esempio, autore di un ottimo “Scacco al Tempo”). Ovviamente non mi sto confrontando, ci mancherebbe, ma la mia generazione è cresciuta con questi autori. Poi mi sono sbizzarrito con un po’ di tutto. Non credo di avere un autore in particolare al quale mi riferisco, anzi cerco sempre di smettere di leggere almeno un mese prima di iniziare un nuovo romanzo, per non essere condizionato nello stile. Non potrei assolutamente leggere e scrivere insieme. Quando scrivo sono totalmente nella storia (dovrei dire ossessivamente).

6. Credi tu negli angeli e nei dèmoni, in quelli canonici che il Cristianesimo e tanti artisti a esso legati hanno disegnato per gli uomini nei corsi dei secoli? E se sì, dove credi si possano nascondere? Tranne qualche mistico e presunto santo, nessuno ha mai avuto la fortuna (o la sfortuna) di trovarsi faccia a faccia con un essere dell’Aldilà.

Argomento delicato. Non voglio svelare nulla del romanzo, ma mi permetto di sottolineare che spesso quando si sente parlare di Angeli e Demoni si pensa subito, come tu ben dici, al Cristianesimo. Ma l’origine del termine è ben più antico, quando utilizzo questi termini (il protagonista verrà appunto chiamato “Demone rosso”) mi riferisco (se vogliamo cercare dei riferimenti) ai demoni delle prime civiltà tribali, a quegli esseri che sono i tramiti tra l’uomo e ciò che l’uomo non conosce o non accetta come realtà preconfezionata (o comunque che non sa spiegare). Sono stato sufficientemente credibile o si è intuito che ho eluso la domanda? Senza andare a scomodare presunte realtà soprannaturali, c’è ancora molto (nonostante Freud e le nuove frontiere della psicoterapia) da scoprire “dentro” l’essere umano. Cose che non è detto ci piaceranno.

7. A tuo avviso, Dio è un’ipotesi, o meglio ancora un’entità superiore che potrebbe esistere o esser esistita? O è più logico pensare che Dio è giusto una probabilità, come il fatto che nell’Universo, in chissà quale tempo galassia e pianeta, potrebbe esserci stata una civiltà intelligente non troppo dissimile dalla nostra? Giordano Bruno il Nolano fu bruciato sul rogo per aver scritto e detto, fra le altre cose, che “nel spacio infinito o potrebono essere infiniti mondi simili a questo, o che questo universo stendesse la sua capacità e comprensione di molti corpi, come son questi, nomati astri; ed ancora che (o simili o dissimili che sieno questi mondi) non con minor raggione sarebe bene a l’uno l’essere che a l’altro; perché l’essere de l’altro non ha minor raggione che l’essere de l’uno, e l’essere di molti non minor che de l’uno e l’altro, e l’essere de infiniti che di molti. Là onde, come sarebe male la abolizione ed il non essere di questo mondo, cossì non sarebe buono il non essere de innumerabili altri.”

Bellissima la definizione di Dio come “probabilità”.
Non credo di essere in grado di rispondere a questa domanda. Dio è un’ipotesi? Non lo so. Inutile fingere una risposta intelligente o deviante. Altri tempi e altre civiltà in altri luoghi? Molto plausibile. Ti posso dire onestamente solo una cosa: la centralità dell’uomo è sopravvalutata. Sono sincero: siamo egocentrici a un livello esasperato. Tutto ciò che solo si avvicina a ipotizzare che non siamo né unici né importanti ci fa incazzare e spesso tutto ruota attorno a questa incazzatura.
E non solo. Se scoprissimo di essere inutili, che non vale la pena che qualcuno ci offra una vita eterna o, diversamente, che non ci reincarneremo in qualche altro elemento, allora la paura ci farebbe impazzire. Il più grande eroismo è la consapevolezza in ogni atto o momento dell’esistenza e l’affrontare la morte che sta in ognuno di quei momenti. Detto questo, io credo in Dio, benché il mio credere consista in una lotta continua.

8. Nei tuoi romanzi, tu, Lucio Figini, guardi con particolare rispetto a quella fetta di società più sfortunata: i tuoi personaggi sono quasi sempre degli sconfitti, dei disadattati o delle persone che portano dentro di sé delle grandi ferite. Qual è il motivo principale e sostanziale di questa tua precisa scelta?

Onestamente non lo so. Ma il fatto che alcuni lettori mi scrivano che questi personaggi (che spesso hanno più problemi di coloro che si trovano a “salvare”, concedimi il termine) mi riescono particolarmente bene, mi obbliga a rivolgermi la stessa tua domanda. Banalmente mi sono sempre stati antipatici gli eroi, coloro che sanno sempre quale sia la cosa giusta da fare, che quando cadono sbattono le spalle e continuano a compiere gesta eroiche, che non si fanno mai troppe domande. Francesco (per dirne uno) se cade si massacra la faccia per terra e quando si rialza è pieno di cicatrici e non sa proprio quello che deve fare, è pieno di dubbi e domande (con le donne, con il prossimo, con il proprio passato, persino con il suo corpo) ed è spesso incazzato per questi motivi (non aspettarti l’ascetica accettazione socratica dell’ignoranza). Più seriamente, adoro la follia, il mistero che si annida nelle parti più ataviche dell’uomo e soprattutto i meccanismi di risposta alle grandi sconfitte della vita, ma parlo di quelle serie, quelle che ti fanno uscire dalla società odierna, dalla metropoli, da tutto ciò che fino a un attimo prima ritenevi importante, per tornare nella Foresta, dove davvero il buio non è solo assenza di luce, ma ha quasi un gusto.

9. Possiamo dire che, sostanzialmente, “Sopravvivere a un angelo” è un urban fantasy? E in caso affermativo, per quali motivi?

Io non scrivo seguendo dei generi, sono gli altri che mi definiscono in tal modo. Ho scoperto solo dopo che il mio ultimo romanzo ha molti elementi di un urban fantasy (anzi… mi dicono distopic e adult). Gli elementi ci sono tutti, in effetti (anche se non credo che sia solo questo): la storia fantastica, la metropoli, la distopia della società rappresentata e il fatto che non è per adolescenti. Sembra che convenga a livello commerciale far parte di un genere, ma il mio stile di vita spesso mi ha dimostrato quanto non sia nelle mie corde. Ho avuto un'Harley (in un lontano passato), ma non mi sono mai sentito un harleysta (se esiste il termine), aborrivo i raduni e altro, ho fatto canoa, ma non mi sono mai sentito un canoista e qui mi fermo perché non ti voglio tediare e perché di cose ne ho fatte abbastanza. Credo di essere più adatto allo stile solitario, provare esperienze che ti permettano di crescere, ma affrontarle a modo tuo e non dipenderne, avere delle passioni, ma non identificarti totalmente in esse.

10. Quale potrebbe essere il principale target di lettori al quale si rivolgono i tuoi romanzi “La discendenza dell’acqua” e “Sopravvivere a un angelo”?

Consiglio i miei romanzi a coloro che odiano il politicamente corretto, che sono pieni di dubbi, che continuano a farsi domande, a qualsiasi età, ma che spesso non sono soddisfatti delle risposte, coloro che amano meravigliarsi sempre e che non smettono di cercare. Sconsiglio i miei romanzi a coloro che non si mettono mai in discussione e che non amano farsi trasportare in avventure dentro e fuori dell’animo umano.

11. Ci sarà un seguito a “Sopravvivere a un angelo”? Nutro infatti il sospetto che siamo di fronte a una trilogia; o hai forse un nuovo progetto già pronto o in corso di definizione da proporre al tuo affezionato pubblico?

Dovrebbe uscire (il mio editore volendo) verso luglio 2013 il mio ultimo romanzo. Sarà la storia di Ariel diventata grande, un omaggio a questo personaggio che nella mia testa ha preso vita, è diventato grande, ma con le conseguenze di ciò che ha vissuto (il titolo sarà appunto: “Ariel”). Sarà la conclusione della trilogia, come giustamente tu hai intuito. Spiegherà tutto, o quasi. È un romanzo (e qui non vorrei diventare contraddittorio) che alcuni definirebbero poliziesco o giallo, dai risvolti psicologici e in parte surreali. Ma non solo.

12. Last but not least, chi è Lucio Figini, l’uomo e lo scrittore?

Un collega ultimamente mi ha presentato alla moglie come “uno scrittore che per vivere lavora come educatore”, altri invece potrebbero definirmi “un educatore che per passione scrive”. In realtà spero di non essere definibile in questi ruoli.
Lavoro, scrivo, suono il pianoforte (ma solo per mia figlia e mia moglie), ogni tanto trascorro una notte in solitaria in un rifugio sulle montagne, amo tagliare i capelli (ma solo a me stesso e al mio migliore amico) e soprattutto giocare con mia moglie e mia figlia. Tutte queste “cose” sono parte di me, ma non sono me. Sono solo le “cose” che faccio (ovviamente il fatto di aver scelto proprio quelle ha un profondo senso e significato) per raccontare dei frammenti di quel che ho dentro,
In realtà, spero di non scoprire chi sono così facilmente e in più nessuno può pretendere di conoscersi, essendo ognuno di noi un essere in continuo divenire.
Diversamente… sai che noia…

 


 

Sopravvivere a un angelo

 

La discendenza dell'acqua