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Stefano Solventi. Intervista all’autore
La meccanica delle ombre
di
Iannozzi Giuseppe


https://www.facebook.com/lameccanicadelleombre

1. Stefano Solventi, è da poco uscito il tuo primo romanzo, La meccanica delle ombre (Cicorivolta edizioni). Prima di parlare del tuo lavoro, credo farebbe piacere a lettori e addetti ai lavori conoscere qualche notizia in più su di te: sappiamo che scrivi con regolarità su SentireAscoltare e Il Mucchio Selvaggio. Hai inoltre pubblicato, nel 2011 per Odoya, “PJ Harvey - Musiche Maschere Vita, biografia critica della cantautrice britannica Polly Jean Harvey”. Da sempre appassionato di letteratura, come è nato Stefano Solventi, oggi anche scrittore?

La voglia di scrivere c’è sempre stata e l’ho vissuta come una necessità quasi vitale. Fin da ragazzino ho scritto dei racconti, fortunatamente andati perduti chissà dove. Più avanti nel tempo ho fatto di meglio, qualche racconto è stato pubblicato, uno su carta e circa una decina sul web. Ma negli ultimi dieci anni la doppia collaborazione con Mucchio e SA – una quantità industriale di recensioni, articoli monografici, interviste, rubriche… – mi ha assorbito e soddisfatto completamente. Posso dire con tranquillità che alla narrativa ormai non pensavo più. Poi è arrivata questa storia, che mi ha letteralmente travolto. Anzi, se non temessi di esagerare direi che mi ha addirittura posseduto. A quel punto, di colpo, mi è tornata la febbre della narrativa. Ed ecco questo romanzo, della cui esistenza sono il primo ad essere sorpreso.

2. In giovinezza quali sono stati i tuoi riferimenti letterari, gli autori che maggiormente ti hanno influenzato? E, invece, quali sono oggi gli scrittori ai quali guardi con maggiore attenzione?

L’autore che per primo in assoluto mi ha trasmesso l’amore per la scrittura è Alberto Savinio, non troppo celebre fratello di Giorgio De Chirico. Uno stile particolarissimo il suo, incredibilmente erudito, lirico, surreale. Poi ci sono state le infatuazioni per Kafka, Dostoevskij, Cervantes, Balzac, Stendhal. Quindi un gran guazzabuglio di tutto, Kerouac, Pennac, Benni, Bukowski, Izzo, Tondelli, Buzzati, Montalban… Oggi guardo con attenzione alla letteratura statunitense, adoro Roth, McCarthy, De Lillo, Lansdale, Wallace, Malamoud. Trovo formidabile Houellebecq. Tra gli italiani mi sembra interessante la carriera di Brizzi, mi piacciono i Wu Ming, ho apprezzato l’ultimo di Torchio, poi ho trovato molto bello l’esordio di un trentenne, Francesco Paolo Maria Di Salvia.


3. In La meccanica delle ombre, tu, Stefano Solventi, citi diversi gruppi musicali, alcuni dei quali ancora in auge, e che però, forse, ai più giovani non dicono niente o comunque poco. E’ fuor di dubbio che la cultura musicale ha influito non poco sulla tua preparazione culturale. In che misura e per quali motivi, tu, Stefano, credi che la letteratura contemporanea non possa fare a meno di comprendere, seppur parzialmente, le vite di quanti hanno fatto della musica la loro prima ragione di vita?

Credo che nessuna esperienza debba rimanere estranea a chi scrive per il solo fatto di non appartenere allo stretto ambito letterario. Vale per la musica come per il cinema, per la danza e le arti figurative. Si potrebbe fare letteratura oggi ignorando l’importanza di Kubrick o Warhol? Non credo. Ugualmente, l’impatto del blues, del jazz e del rock nella cultura contemporanea è talmente profondo e sedimentato che non lo si può ignorare. È lecito non farne oggetto narrativo, certo, ma e raccomandabile averne coscienza.

4. Leggendo il tuo romanzo, La meccanica delle ombre, forse sbagliando, mi è parso di scorgere un po’ dello spirito divertito/ironico e vagamente gotico tipico di autori quali Neil Gaiman, Terry Pratchett, Chuck Palahniuk, ma anche qualche elemento scanzonato dell’ultimo Thomas Pynchon (Vizio di forma, La cresta dell’onda). Stefano Solventi, com’è nato questo tuo primo romanzo e, soprattutto, per quali ragioni hai sentito la necessità di scriverlo e pubblicarlo?

Premetto: sono un lettore frustrato, nel senso che ho pochissimo tempo libero rispetto alla voglia di leggere. Per cui, e con rammarico, confesso di non conoscere Gaiman e Pratchett. Palahniuk invece lo conosco e mi piace molto, lo stesso vale per Pynchon. Li trovo entrambi geniali. Il mio libro comunque non nasce da un’ispirazione di tipo letterario. È, ripeto, una storia che è nata improvvisamente, travolgendomi. Non ho potuto fare a meno di scriverla, ne ho sentito l’assoluto bisogno. Evidentemente mi stava covando dentro da anni.


5. La meccanica delle ombre è un romanzo scritto con stile asciutto ma mai banale: c’è dentro molta cultura pop e avantpop – come nei migliori lavori di Nick Hornby. Racconti la storia di Benni, di una persona qualunque: e però, a un certo punto, Benni va incontro a degli incidenti che sarebbero dovuti essere mortali; e invece ne esce illeso. Dovunque ci sia lui, nessuno si fa male sul serio. Il protagonista non sa, non vuole credere d’esser diventato, all’improvviso, un fenomeno da baraccone, forse un miracolato, un Unto del Signore. Per definire il personaggio di Benni, hai tu lavorato di sola fantasia o ti sei anche ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti?

Mi lusinga l’accostamento a Hornby, lo apprezzo e gli voglio un gran bene. È un autore leggero che però ti frega, perché riesce sempre a spacciare gravità assieme al divertimento. Per quanto riguarda la storia di La meccanica delle ombre, come ti dicevo credo che mi stesse fermentando dentro da anni, ma se è uscita così prepotentemente è perché ci sono stati dei precisi fattori scatenanti, quelli che ho raccontato nei primi due capitoli del libro. In pratica, quei primi due incidenti a cui assiste Benni sono realmente accaduti, sono cronaca. Pura cronaca. Tutto il resto è invenzione, anche se molti dubbi e riflessioni del protagonista hanno fatto parte della mia vita.

6. Benni è uno scapolo, da poco separato: la sua vita non è delle più economiche, vive alla giornata cercando di soffocare gli attacchi di panico. Dopo essersi separato da Giovanna, da quella che era sua moglie, ha messo tana in un piccolo alloggio pieno di libri: sua unica compagnia un’ombra, un’area scura proiettata da un corpo misterioso. Benni l’ha fatta sua amica e vuol credere che sia benevola, e mai si è preoccupato di capire quale sia la sua origine. A un certo punto, a una festa, incontra Anassimandro, un postino che ha fatto del gioco delle ombre cinesi un hobby e un lavoro. Come il filosofo presocratico, Anassimandro par abbracciare (inconsapevolmente) l’idea che il principio degli esseri è di tendere all’infinito. Stefano Solventi, che cosa sono per te le ombre e, soprattutto, quale ruolo giocano nel tuo romanzo?

Le ombre simboleggiano ciò che non si capisce fino in fondo e che per loro natura ti affascinano, ti inquietano, ti spingono a credere, a voler credere in qualcosa di irrazionale per regalarti l’illusione di poter in qualche modo spiegare anche quello che sembra inspiegabile. La cosa che più mi ha meravigliato è come tutto di questa storia, anche questo doppio plot parallelo ed emblematico rispetto alla trama principale, sia nato spontaneamente. Voglio dire, non ho dovuto ingegnarmi per escogitare sviluppi o strutture. Tutto si è costruito naturalmente, come se non potesse farne a meno, come se fosse naturale. Alla fine chissà come tutto si tiene. Ancora oggi non so spiegarmi come certe soluzioni e situazioni mi siano venute in mente, in ogni caso ne sono molto soddisfatto. Al personaggio di Anassimandro poi sono particolarmente affezionato: in realtà l’ho “riciclato” da un vecchio fallimentare racconto giovanile, adeguandolo per l’occasione. Malgrado la sua presenza duri solo poche pagine, trovo che sia una specie di perno attorno a cui gira tutta la storia. Non a caso il titolo del libro nasce da una sua frase detta al protagonista.

7. A tuo avviso esisterebbe una forza sovrumana, sia essa di natura divina o malefica? Perché? Non potrebbe essere invece che ciò che noi chiamiamo “universo” e “infinito” siano mero frutto del Caso così come ha ben spiegato Stephen Hawking?

Potrebbe essere, certo. Anzi, ne sono convinto. Credo tuttavia che il Caso produca architetture di tale complessità da rendere legittima qualsiasi interpretazione, sia essa razionale o irrazionale, scientifica o religiosa. Voglio dire, siamo ancora lontani da un livello di comprensione della realtà, questa realtà in cui ci è capitato di esistere, da poter essere chiamata, appunto, comprensione. Penso che di fronte alla complessità non dico dell’universo ma anche di una singola esistenza, si tenda naturalmente ad esercitare la nostra attitudine affabulatoria, escogitando narrazioni, racconti, storie che in qualche modo spieghino, racchiudano l’incomprensibile in un bozzolo comprensibile, o per meglio dire umano. C’è una celebre frase di Balzac che recita: il caso è il più grande romanziere del mondo. Ecco, la faccio mia senza indugio.

8. Si è fatto in passato un gran parlare di miracoli, e oggi non è diverso: nell’èra degli iPhone e dei viaggi oltre il sistema solare, la gente continua a credere, in maniera piuttosto ostinata e irrazionale, che il bene e il male esistano e abbiano fattezze impossibili da immaginare. Stefano, sei tu dell’opinione che forze come il Bene e il Male siano concrete, che appartengano a un aldilà che, per il momento, non ci è dato di conoscere? La meccanica delle ombre gioca molto su i concetti di Bene e Male oltreché su quelle che si potrebbero definire connessioni, permute di energia fra un individuo e un altro.

Nasco cristiano. Cresco con molti dubbi. Oggi mi ritengo agnostico solo perché, come recita Benni ad un certo punto della storia, “essere ateo è troppo impegnativo”. Ti rispondo quindi con un solenne: non so. Ma è un “non so” che presuppone un precipizio, una vertigine, non certo indifferenza. Vivo questa ed altre mancanze di certezze come altrettanti vuoti che esigono di essere riempiti. Bene e Male sono situazioni che si possono attraversare come gelatina, scavare, dissezionare, indagare fin nelle minime escrescenze per scoprirle intrise di contrasti e sfumature. Quanto alle connessioni e alle permute di energia tra individui, credo che siano evidenti, anche se razionalmente non le ritengo reali. Quel briccone del Caso non manca di apparecchiare circostanze che ce le fanno sospettare vere, per cui sta a noi la scelta: crederci o non crederci. L’importante è non perdere di vista la nostra principale missione come specie: mantenere viva e vegeta un’organizzazione sociale che possa dirsi civile. In ragione di ciò, credo che la superstizione dovrebbe fare ovunque e in ogni sua forma un passo indietro.

9. C’è un messaggio o una morale da raccogliere fra le righe de La meccanica delle ombre, e se sì, quale?

Sono convinto che una storia debba essere innanzitutto una storia, con il compito di avvincere, intrigare, divertire, turbare eccetera. Poi una storia, proprio perché è fatta di ciò che si tiene dentro e ciò che ne resta fuori, ha comunque un senso. Non può farne a meno. La meccanica delle ombre ha un tema, ovviamente, ed è il bisogno di credere. Un bisogno disperato e nevrotico, che rivela tutta la debolezza e la vulnerabilità dei protagonisti. Inoltre, a mente fredda, credo di avere trasmesso molto del mio rancore nei confronti della mia generazione: per essersi tirata indietro, per non avere provato ad imprimere una direzione in senso etico e politico al nostro tempo, pur avendone i mezzi intellettuali, la consapevolezza. Invece, ahinoi, ci siamo crogiolati nella deliziosa abbondanza del benessere e dei gadget tecnologici, lasciando che le cose arrivassero fino a questo punto. Il risultato è che i nostri figli dovranno affrontare difficoltà molto maggiori rispetto a noi. Abbiamo consegnato loro un mondo malato e una società intrinsecamente ingiusta. I circa quarantenni protagonisti della storia sono abitati da questo senso di fallimento esistenziale ed epocale.

10. A tuo discreto giudizio, chi oggi come oggi può definirsi scrittore? Parrebbe che in Italia tutti scrivano e per giunta parecchio bene: tutti o quasi si sentono degli artisti incompresi… A far cadere le braccia sono però i dati, che, in maniera incontrovertibile, ci indicano come fanalino di coda tra i paesi acculturati.

Siamo uno strano Paese, in effetti. Attraversiamo una crisi culturale profonda, che si riflette ovunque. Tuttavia, ho letto molti bei libri di scrittori italiani negli ultimi mesi. Secondo me in questo Paese sappiamo ancora come raccontare belle storie, anche coraggiose, con un linguaggio non banale. Si tratti di scrittori poco conosciuti, come Sandro Campani autore dell’ottimo Terra nera, o del vincitore dell’ultimo Strega, Nicola Lagioia, il cui La ferocia per me è opera notevole. Detto questo, penso che uno scrittore debba fare innanzitutto e semplicemente una cosa: raccontare. Deve essere un rabdomante di belle storie, che all’occorrenza spacchino le convinzioni e le convenzioni. Storie che devono essere armate di un linguaggio efficace, vivo, che osi fare un passo avanti verso ciò che non è ancora stato detto. Il linguaggio vive procedendo perché con ciò esprime un progresso culturale. Il linguaggio è vita.

11. Stefano Solventi, in qualità di autore, a quale fascia di lettori consiglieresti di leggere La meccanica delle ombre?

Lo consiglio a chi non ha smesso di credere alla vita, che di miracoli è piena così com’è, anche senza un dio. A chi non ha smesso di credere alla musica, malgrado tutta la brutta musica che egemonizza le playlist. A chi non ha smesso di crederci, in generale.



La meccanica delle ombre