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titolo: "Fredda pelle nera"
collana blocknotes
autore Enrico Di Bernardo
ISBN 978-88-97424-48-2
€ 12,00 - pp. 268 - © 2012 - in copertina,“number’s”, by Sebastiano Bongi Tomà - il ramingo - (www.sbtphotographer.eu)


Scritto in prima persona, FREDDA PELLE NERA, affronta l'argomento dell'uso improprio e tendenzioso della manipolazione genetica. Attraverso momenti di introspezione psicologica dei protagonisti, la trama si sviluppa tra Italia e Scandinavia in un susseguirsi di colpi di scena, omicidi, inseguimenti e un finale tutto da interpretare…

 

... e di Enrico Di Bernardo leggi anche Genesi di un delirio
 

Un rivoluzionario esperimento genetico, portato a compimento da un team di ricercatori con speranzose prospettive diagnostiche e terapeutiche, viene utilizzato quale potenziale mezzo di distruzione di massa da un gruppo di intellettuali di estrema destra. Un olocausto indolore e silenzioso rivolto all'annientamento della razza nera. Sarà impegno dell'unico biologo, sopravvissuto a una serie di omicidi funzionali al progetto xenofobo, in collaborazione con una donna trascinata nella vicenda da una casuale scoperta e dal rocambolesco incontro con l'uomo, cercare di impedirne la riuscita.

 

 

 

Brano tratto da "FREDDA PELLE NERA"

(...)

uno

La stavamo aspettando da dodici anni quella reazione biochimica. Dodici anni di sacrifici, ma soprattutto di speranze disilluse.
Più di una volta avevamo pensato di abbandonare tutto. Eppure, nel medesimo istante, tutti quei fallimenti non facevano che alimentare in noi il vento della passione, della sfida all’inimmaginabile.


Quando il timer al quarzo lanciò il segnale sonoro, ero dall’altra parte del laboratorio indaffarato nella preparazione di una soluzione salina.
Non avevo motivi particolari per pensare che quella volta avrei ottenuto un riscontro significativamente diverso dagli altri, se non per un innato ottimismo - che in alcune occasioni perfino io facevo fatica a comprendere - e una perseverante fiducia nel mio metodo di lavoro. Era il fatto che quel giorno mi sentivo addosso una strana sensazione, un malessere fisico difficilmente collocabile tra il ventaglio di risposte scontate all’inquietudine mentale. Per cui, solo per caso, contrariamente alle mie abitudini non corsi ai margini del bancone di lavoro per buttare immediato l’occhio. Piuttosto mi ci avvicinai lentamente, con cautela.
Certo è che non appena lo sguardo si posò sulla colorazione blu indaco del pozzetto di semina mi si annebbiò la vista; una patina umida, quasi viscosa, rese sfocata e tremolante l’immagine che stavo cercando da una vita.
Mi sedetti con movimenti controllati sullo sgabello, cercandolo con la mano. Asciugai gli occhi con la manica del camice e restai incredulo a meditare, le pupille incollate a quel pezzetto di plastica. Mi dimenticai perfino di fissare la reazione con l’acido solforico. Un passaggio fondamentale che avrebbe consentito alla sfumatura di non svanire nei minuti successivi, e di sancire quindi il positivo epilogo di una decennale battaglia scientifica.
Ma tutto questo non aveva importanza ora. Ogni singola operazione del processo era indelebilmente impressa nella mia mente. Sarebbe stata semplice routine il riprodurle. Ciò che contava adesso era l’accaduto.
“Biagio, Tommy...” provai a chiamare i due colleghi, ma nonostante fossero a pochi metri da me non fui in grado di farmi sentire.
“Biagio. Tommy.” Alzai un po’ la voce, incerta per l’emozione.
“Che c’è?” fu Tommaso a rispondere.
“Venite qua.”
Biagio arrivò per primo e il suo sguardo fu guidato sul pozzetto non tanto da un gesto o da parole, quanto dai miei occhi; biglie marmoree a suggello di un’espressione incredula. “Non può essere...” sussurrò.
“Ce l’abbiamo fatta Athos! ce l’abbiamo fatta!” a fendere l’aria satura di tensione furono le urla di Tommy, giunto a sua volta.
Sì, ce l’avevamo fatta.
Ora non restavano che due cose da portare a termine: la prima era quella di riprendersi, di mettere a fuoco la realtà, di realizzare il momento vissuto; la seconda di riprovare all’infinito l’esperimento, di accertarsi che non ci fosse stata casualità, di mettere a punto la procedura d’esecuzione.
Alzai la cornetta e composi un numero della linea interna. “Signor Dudda?”
“Sì?”
“Sono io. Ci sono novità. Forse...” la voce mi tremava. Sapevo di dare un duro colpo alle coronarie di quell’uomo. “Forse ci siamo.”
Un attimo di silenzio. Poi la risposta. “Arrivo.”


Joachim Dudda prima ancora che un medico era un imprenditore. Anzi, medico non lo era per niente, visto che non aveva mai preso la laurea. Imprenditore invece lo era stato fin da giovane, quando, mosso forse da autentica passione e sicuramente da un’accertata possibilità, aveva fondato un istituto di ricerca biomedica con lo scopo di scandagliare possibili percorsi alternativi alle tradizionali metodiche di prevenzione e cura delle malattie genetiche. Contestualmente aveva potuto attingere dalle casse dello Stato le sovvenzioni elargite a tal riguardo dal Ministero della Sanità.
Erano gli anni Cinquanta.
Nel tempo aveva diversificato la sua attività dedicando energie e capitali in settori meno filantropici, ben distanti dalla linea di confine dell’avanguardia tecnologica e di pensiero, ma di certo più remunerativi.
Quel che restava dell’istituto di ricerca era stato trasferito nel piccolo laboratorio ai margini di Ivrea, all’interno del quale lavoravamo senza sosta io e i miei colleghi, a sentire Dudda tre delle menti più geniali che avesse mai avuto modo di conoscere. Ora, dopo dodici anni, ci poteva considerare quasi come figli.
Dei tanti progetti a cui ci eravamo dedicati ne era rimasto soltanto più uno, sul quale avevamo concentrato tutti i nostri sforzi. Il più importante di tutta la sua vita, e visto che aveva da poco compiuto i settantatre anni, poteva dirsi certo che sarebbe stato l’ultimo.
Adesso quella telefonata.
Si infilò il cappotto e uscì dall’ufficio. Percorse lungo il marciapiede i cinquanta metri che lo separavano dal laboratorio, urtando i pochi passanti noncurante delle invettive che questi gli rivolgevano, gli occhi a fissare il vuoto davanti a sé.
Faceva freddo, era gennaio, e il termometro segnava quattro gradi sotto zero. Contrariamente alle sue abitudini non aveva indossato il cappello di pelliccia. Probabilmente non se ne era ricordato. D’altronde la mia telefonata, la mia voce stranamente incerta, lo avevano scosso, ma era perfettamente comprensibile.
“Ragazzi, spero proprio che non sia uno scherzo” sibilò con tono teso non appena varcata l’entrata del piccolo locale. Intanto con movimenti nervosi si tolse il cappotto.
“Sa bene che scherziamo su tutto fuorché su questo argomento.” A rispondere, come al solito, fui proprio io. Ero io che intrattenevo i rapporti quotidiani col capo, le estenuanti relazioni sull’evoluzione delle ricerche.
Non avevamo mai visto Dudda in quello stato emotivo; l’uomo sembrava aver somatizzato l’ansia derivante dalla propria condizione di individuo perennemente in attesa, scaricando nelle rughe del viso la tensione accumulata in oltre due lustri di tentativi finalizzati a un unico obiettivo. Tentativi peraltro mai riusciti.
Finora.
“Da questa parte” indicai.
Dudda si avvicinò al banco di lavoro guardandosi tutt’intorno, quasi che non avesse mai visto quel posto quando invece lo aveva progettato lui, quasi come fosse la prima volta che entrava lì dentro. Era frastornato.
La piastra di diluizione con la fila degli otto pozzetti di semina, tra i quali quello che aveva accolto gli agenti della miracolosa reazione, era in bella vista sul piano sgombro.
La colorazione era quasi svanita, ma quel che restava era un’eloquente dimostrazione di vittoria.
“Il J.D. factor...” balbettò Joachim Dudda con lo sguardo alienato. “Non ci può essere errore? Un subdolo, ingannevole errore?” domandò con uno scatto improvviso fissandomi negli occhi con viva apprensione.
“Un errore sicuramente no. Adesso dovremo verificare con calma se sia intervenuto un qualche fattore di casualità. Ipotesi per la quale sarebbe praticamente impossibile isolarlo.”
Erano parole che lasciavano la porta aperta all’incertezza. Era altrettanto vero però, che conoscendo la metodicità e il rigore procedurale con cui noi lavoravamo, il margine concesso al caso non poteva che dirsi irrisorio.
Ora, tutti e quattro ci trovavamo intorno al bancone a contemplare cinque microlitri di sostanza organica, carichi di adrenalina e frementi come mai prima di allora.
D’altronde ognuno di noi sapeva bene che la scoperta avrebbe permesso di debellare gran parte delle patologie neonatali, nonostante il campo dell’esperimento fosse circoscritto a un solo ceppo etnico, quello per il quale avevamo ricevuto l’autorizzazione dall’OMS. Non sarebbe stato difficile infatti traslare le conoscenze acquisite finora su tutte le altre specie umane. Per noi poi sarebbe stata la consacrazione professionale e nel medesimo istante un aiuto non indifferente al lavoro del Signore. Avremmo così esaudito un’intima quanto edonistica richiesta di gratificazione morale. Una concessione scontata al valore della ricerca.
Viceversa, tutti e quattro sapevamo altrettanto bene che se utilizzato in modo improprio il ‘fattore J.D.’ avrebbe potuto rappresentare un pericolo per l’intera umanità. Sarebbe stato tragicamente deduttivo infatti ipotizzare un vero e proprio olocausto.
Un olocausto silenzioso.


Quando rientrò in ufficio Joachim Dudda, l’uomo le cui iniziali sarebbero rimaste impresse per l’eternità sul papiro arrotolato della storia scientifica, si buttò a peso morto sulla poltrona. Si portò l’indice alla bocca per mordicchiarsi l’unghia, fissando la parete innanzi a sé. Poi si strinse il capo tra le mani, in un gesto che significava disperazione. Ora doveva necessariamente affrontare una questione dai risvolti angosciosi e per certi versi drammatici.
Era una problematica legata a doppio filo alla riuscita dell’esperimento e finora, per dodici anni, non aveva dovuto che sfiorarla solo col pensiero, per rimuoverla subito dopo.
Si trattava dell’unico aspetto negativo di tutta la vicenda, ma lui sapeva che era imprescindibile al fine ultimo del progetto.
Una fila di libri stranamente tutti uguali, che lui stesso aveva provveduto a sistemare in perfetto ordine un paio di anni prima sul ripiano della libreria, faceva da scenografia al personale momento di debolezza di un uomo apparentemente confuso.
Fu la vista di quei libri che gli fece abbandonare ogni remora.
Alzò la cornetta del telefono e compose con la mano tremante un numero di nove cifre con un prefisso internazionale.
Al terzo squillo qualcuno rispose: “Sì?”
“Il camaleonte ha cambiato colore.” Joachim Dudda scandì con voce fiera la frase che non avrebbe mai voluto pronunciare. Non attese la risposta. Sapeva che non ci sarebbe stata replica.
Solo allora il magnate si rese conto che per la prima volta nella vita aveva fatto qualcosa di veramente irreversibile, che non avrebbe potuto arrestare neanche usando l’immenso potere di cui era depositario.
Appena posò il ricevitore si precipitò davanti allo specchio ovale dello studio; fissò lo sguardo sulle rughe di una pelle segnata dal tempo per poi soffermarsi sugli occhi castani inumiditi dalle lacrime trattenute a stento: la sola certezza che poteva dire di possedere adesso era che Joachim Dudda non era più lo stesso uomo.

(...)

 


 

Enrico Di Bernardo, nato ad Ivrea nel 1965, sposato con due figlie, diplomato in Educazione Fisica, è impiegato come responsabile di produzione in un laboratorio di diagnostica.
La passione per la scrittura, associata al piacere per la lettura di romanzi di spionaggio e di avventura in genere, lo hanno portato alla stesura di tre manoscritti con soggetto 'fantagenetico', che hanno tratto fertile materiale di ispirazione dalla tipologia stessa del lavoro che svolge da più di dieci anni.

“FREDDA PELLE NERA” è il suo primo libro.