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titolo: "Genesi di un delirio"
collana blocknotes
autore Enrico Di Bernardo
ISBN 978-88-97424-75-8
€ 13,00 - pp. 197- © 2013 - in copertina,illustrazione originale di Andrea Tarli - BadTripProduçao (www.badtrip.it)

 



Fra Italia, Jugoslavia e Pakistan, l’uno sulle tracce di un killer seriale e l’altra indagando su due macachi assassini geneticamente modificati, un ispettore di Polizia di Ivrea e un’insegnante di danza di origine francese, incrociano i loro destini.

 

... e di Enrico Di Bernardo leggi anche Fredda pelle nera
 


Tutto nasce dall’ambizioso e delirante progetto di un illustre neurochirurgo, che si pone l’obiettivo di duplicare uno specifico gruppo di cellule nervose impiantandole nel cervello di due scimmie. La nemesi è compiuta. Il rischio non calcolato sta nell’origine biologica delle cellule cerebrali utilizzate per l’innesto. La natura si rivolterà contro l’uomo e per due lunghi mesi il terrore sconvolgerà la tranquilla cittadina di Ivrea.


Sullo sfondo, un intreccio di spionaggio collegato alla produzione autoctona di sostanze altamente tossiche, che coinvolge Italia e Pakistan e che risulterà direttamente correlato alle indagini dell'ispettore. Saranno sufficienti la perspicacia e l'affiatamento tra i due protagonisti a risolvere il duplice caso?

 

 

 

Brano tratto da "GENESI DI UN DELIRIO"

19 febbraio

Nonostante l’evidente reticenza, le bertucce vennero fatte accomodare nella gabbietta a tenuta stagna con le pareti di vetro temperato.
Betty era un esemplare vivace e spigliato, dotato di un’intelligenza acuta, al punto che Aimo Viale si convinse fosse in grado di percepire che quella dimora provvisoria, in realtà, sarebbe potuta presto diventare definitiva; la diffidenza con cui vi si era avvicinata la si poteva intuire chiaramente dagli atteggiamenti.
Casper invece aveva un’indole più mansueta, ma non per questo dimostrava minore perspicacia, semmai un atteggiamento misurato che sfociava nella tenerezza.
Forse fu solo una forma di suggestione, ma gli occhietti vispi dei primati sembrarono impregnarsi di consapevole tristezza nel momento stesso in cui incrociarono quelli del professore, il quale si stava apprestando ad aprire la valvola che avrebbe permesso alla sostanza nebulizzata di insinuarsi subdolamente nella gabbia e immediatamente dopo, con imbarazzante efficacia, nei polmoni delle scimmiette.
Nonostante Viale, nella sua decennale carriera di ricercatore, avesse sperimentato ogni forma di shock indotto da gas nervini su cavie, la reazione di Betty all’inalazione dell’aerosol non lo lasciò indifferente. La piccola bertuccia iniziò a dibattersi convulsamente, emettendo strazianti versi colmi di sofferenza. Subito dopo cadde per terra in uno stato di apparente catalessi, ma in preda a incontrollabili contrazioni muscolari di chiara derivazione tetanica. Aveva gli occhi spalancati. Poi cercò di trattenere dei colpi di tosse - almeno così a lui parve - senza riuscirvi, e dalla bocca le fuoriuscì un rivolo di sangue.
Casper la guardava con apprensione, ma senza presentare il benché minimo segnale di disagio fisico. Per Aimo Viale era la prova provata di un successo insperato ma fortemente voluto, anche se finora soltanto parziale. L’uomo guardò l’orologio e decise che poteva bastare; chiuse la valvola del gas e aprì il condotto di aspirazione affinché le particelle residue confluissero nella camera di decontaminazione. Quindi si sistemò la mascherina su bocca e naso e, con una cautela che non gli apparteneva, aprì la gabbia. Estrasse con delicatezza Betty, ancora sotto l’effetto degli spasmi muscolari. Doveva fare in fretta, aveva a disposizione meno di tre minuti. Adagiò la scimmia sul lettino metallico e prese dal frigo un piccolo flacone di vetro contenente una soluzione incolore. Lo scaldò per pochi attimi nel palmo della mano chiusa a pugno, quindi lo aspirò con una siringa per iniezioni insuliniche e si accostò a Betty. Con l’indice cercò l’arteria omerale sulla zampa anteriore e vi iniettò il liquido. Guardò nuovamente l’orologio; se aveva fatto bene i calcoli ci sarebbero voluti al massimo trenta secondi.
La bertuccia sembrò rilassarsi. Decontrasse ogni muscolo del corpo, smise di tossire e abbassò le palpebre.
Venti secondi.
Viale venne sopraffatto da un senso di scoramento; Betty sembrava volesse abbandonarlo.
Trenta secondi.
Il tempo era scaduto, la scimmia esanime. Era un peccato, un vero peccato. Per la bertuccia e per le sue aspettative, per i kurdi, per i tutsi, e per decine di etnie sparse in ogni angolo della Terra.
Poi la vide. Vide la zampa che si muoveva, subito dopo la testa, le palpebre, il goffo tentativo di tirarsi su. Sì, sì, Betty ce l’aveva fatta! E lui insieme a lei.
Casper, che sembrava aver seguito l’evolversi della situazione con aria sconsolata, ebbe un sussulto quasi che si fosse perfettamente reso conto dell’accaduto. Lui, per Viale, era davvero il frutto maturo di una lunga sperimentazione. Nei tre mesi precedenti gli erano state somministrate due dosi di una soluzione proteica satura di cereolisina, una tossina sintetizzata dalle spore del Bacillus anthracis, nella quale la carica batterica del bacillo era stata ridotta al dieci per cento della sua normale potenzialità tossica, quel tanto necessario per stimolare il sistema immunitario del primate alla produzione di anticorpi specifici, senza provocare gli effetti sintomatici tipici del ceppo in questione e dei quali era stata invece sopraffatta Betty; crisi tetaniche, febbre emorragica bronchiale, lesioni granulomatose, che avrebbero indotto in pochi minuti a una morte atroce quanto inevitabile. Fino ad allora. Un vaccino contro il più letale dei batteri presenti in natura e un antidoto per renderlo inoffensivo.
Aimo Viale era un accanito sostenitore dei diritti umani e della pace nel mondo e il suo progetto non aveva alcunché di autocelebrativo né, tanto meno, puzzava di business; al contrario sarebbe stata un’opportunità di salvezza per tutte quelle minoranze discriminate, costantemente sotto la minaccia di sanguinarie dittature che avevano individuato nella guerra biologica il mezzo più efficace per lo sterminio di massa. E ora, alla faccia di tutti questi psicopatici che rivendicavano per tramite del fondamentalismo religioso un pretesto morale per la pulizia etnica, non restava che un ultimo passaggio; la sperimentazione clinica. Aveva già contattato qualche volontario, che a suon di euro e di rassicurazioni era stato convinto a testare il vaccino.

Nel frattempo lo scienziato aveva una missione ancora più importante da compiere ed entro pochi giorni avrebbe saputo se il suo nome sarebbe rimasto impresso per sempre nelle pagine della storia.

 

PARTE PRIMA


paradigma genetico

30 marzo

Quando Aimo Viale varcò l’uscita secondaria dell’ufficio al piano terra in Via Lungo Tevere Ripa, aveva stampata sul volto l’espressione inebetita dell’ingenuo scolaretto che strappa il primo appuntamento alla più bella della classe. Eppure, come biasimare la naturalezza con cui un uomo navigato lasciava trasparire l’emozione; in fondo, era l’avverarsi di un desiderio.
“L’importante, caro Viale,” gli aveva confidato il Presidente del Consiglio Superiore di Sanità, “è che questa conversazione... lei intende, che questa conversazione non abbia mai avuto luogo.”
Beh, fosse stato per lui, non l’avrebbe saputo neppure San Pietro quando l’avesse accolto sulla soglia del Paradiso. Già, perché lui in Paradiso ci sarebbe andato di sicuro.
Non era stato facile. Per convincere il Ministro a concedergli l’udienza con il Presidente aveva mobilitato, in via del tutto informale s’intende, i conoscenti dell’ambiente diplomatico milanese che lui, bontà sua, aveva modo di frequentare. Il fatto è che non si trattava soltanto di una questione burocratica; era soprattutto un problema di ordine morale. Nel mondo scientifico si vociferava da tempo del suo progetto e un coinvolgimento delle cariche politiche, o peggio, il benestare istituzionale, sarebbe stato il fondato pretesto per puntare l’indice contro la maggioranza - del cui appoggio si era giovato, e non poco, nel corso delle sue iniziative sperimentali - e reclamare a gran voce una crisi di governo. Sapeva bene che l’opposizione non aspettava altro.
“Lei capisce che lo stanziamento di fondi statali dipende dall’apertura di una pratica… insomma, si tratta di un atto ufficiale. Ogni movimento di bilancio richiede un criterio di rintracciabilità…”
“Ma io non vi sto chiedendo un finanziamento! Il Ministro lo sa bene, pensavo ne fosse al corrente anche lei. Ormai sono nella fase terminale del mio percorso. è sufficiente l’autorizzazione a procedere e il passaporto per aprire le porte delle stanze in cui adesso mi è proibito entrare. Nient’altro.”
“Senta, in realtà il Ministro mi ha fatto intendere di aver già deciso. Se non si tratta di una questione prettamente economica, per sbrigare le formalità tecniche credo di poterle dare l’appoggio di cui necessita.”
E così aveva ottenuto le chiavi di accesso. Telefonate sicure piuttosto che messaggi scritti su carta priva del timbro ministeriale e di firma in calce.
Tanto gli bastava.

All’incontro organizzato presso la sala del Consiglio del Ministero della Salute parteciparono soltanto in tre, gli unici a esserne a conoscenza. Erano le 23,15 del 30 marzo.
Il Ministro era seduto in testa al lungo tavolo di mogano, con il capo chino e le mani intrecciate sul piano, quasi che stesse pregando. In realtà stava facendo roteare vorticosamente i pollici, al ritmo dei suoi mille pensieri.
L’atmosfera che permeava la stanza era carica di tensione e, nonostante la famigliarità, nessuno sembrava avere il coraggio di violare il silenzio con parole forse inopportune.
Un uomo alto, magrolino, leggermente ingobbito, tisico si sarebbe detto solo qualche decennio addietro, camminava nervosamente con le mani in tasca, lasciandosi alle spalle il rumore dei passi veloci sul pavimento in cotto fiorentino. “Hai fatto la cosa giusta, Adalberto” interruppe l’imbarazzo il Presidente del C.S.S., rivolgendosi al Ministro.
“Non so. Non credo che neppure le dittature più sanguinarie abbiano mai concesso tanto alla scienza. Cercando di leggere nel futuro, voglio dire. Se mai dovesse venire a sapersi negli ambienti vaticani…”
“Andiamo! La tua è la prospettiva più infausta! D’altronde la storia insegna. Essere buoni cattolici non vuol dire necessariamente restare fedeli a teorie retrograde e ottuse. E poi hai detto bene tu, non dimentichiamolo mai, si tratta di una concessione fatta in assoluta buona fede e con propositi umanitari e progressisti.”
“La buona fede potrebbe essere una giustificazione insufficiente.”
“Sono sicuro che tra qualche anno ti sentirai completamente gratificato da questa scelta.” Il Presidente era un uomo assolutamente pragmatico, eletto dal Ministro a propria guida e mentore qualche anno prima, quando una sua intuizione gli aveva permesso di aggirare un ostacolo compromettente legato alla privacy sulla via che l’avrebbe portato alla leadership del partito.
Il favore gli era stato elargito in buona fede, con formula del tutto altruistica, senza il seppur minimo, giustificabile, intento opportunistico. Lui l’aveva capito, rendendolo oggetto della sua incondizionata gratitudine.
“Auguriamoci solo che non ci siano risvolti imprevisti e… soprattutto incontrollabili.” A parlare fu per la prima volta il Sottosegretario di Stato del Ministero della Salute, il solo dei tre che fin da subito non aveva espresso soltanto perplessità, bensì insindacabile contrarietà al progetto. “Basterebbe una fuga di notizie.”
Lo sguardo del Ministro andò subito a cercare il volto amico, in attesa di parole ed espressioni rassicuranti.
“Non accadrà. Siamo solo in cinque a sapere.”
“Al laboratorio ci sono gli assistenti…”
“Gli assistenti, tranne uno, conoscono solo una verità parziale, lo sai bene. Non hanno elementi sufficienti per arrivare a conclusioni di pericolosa pertinenza. E non ne hanno nemmeno il motivo.”
“Questo è quanto ti ha assicurato Viale. Tu sottovaluti l’avidità dell’animo umano, mio caro. E il direttore del carcere? E la psicologa che ha seguito il caso?”
“Al direttore verrà propinata una verosimile storiella di sperimentazioni in vitro; non farà domande. Quanto alla psicologa, ne ha più di trecento da seguire. Cosa ti fa pensare che abbia voglia di ficcare il naso in affari che non sono più di sua competenza?”
“Tu lo sai su cosa vuole intervenire Viale?”
“L’esperto non sono io. Conosco il progetto nelle sue linee generali, ma so a quali benefici può farci arrivare.”
“Bene, allora lascia che te lo dica. Lui interverrà andando a stimolare l’amigdala, una piccola porzione della parte corticale del cervello. Modificazioni dell’amigdala possono indurre reazioni controverse. Stimola il rilascio di ormoni che innescano reazioni emozionali in grado di scatenare fenomeni imponderabili quali la collera piuttosto che la gioia, l’aggressività invece della tolleranza, impulsività al posto del raziocinio. Non è assolutamente gestibile in concomitanza con patologie neuropsichiatriche in atto. In sostanza, non sappiamo dove si andrà a parare.”
“è indispensabile che quell’uomo, quel carcerato, non risulti mai esistito.” Il Ministro si inserì nella discussione con voce pacata. “Ogni informazione che lo riguarda va fatta sparire, atti giudiziari e processuali inclusi. Nome, cognome, certificato di nascita, impronte digitali. Non è mai nato né vissuto.”
“è stato scelto proprio perché nessuno possa ricordarsi di lui. Non ha famiglia né amici; in tredici anni nessuno è mai andato a trovarlo, e io ho l’uomo giusto in grado di cancellare ogni traccia della sua esistenza in questo mondo. E poi, con il terremoto che è successo in quelle zone nel novanta, non esisteranno neppure più gli archivi. Il suo passato non è assolutamente ricostruibile.”
“Torno a ripetere che è un azzardo!” Il Sottosegretario restava in totale disaccordo. “Io credo solo che questa esasperata ricerca dell’immortalità non potrà che condurci al parossismo genetico!”
“La tua è soltanto un’affermazione che avvalora l’inconfutabile paradosso del tuo pensiero conservatore!”
“Adesso basta! Comunque sia,” il Ministro intervenne, questa volta con autorità, quasi a stemperare un confronto che non aveva più motivo d’essere, “il dovere supremo di guardare al di là dell’orizzonte cui può arrivare il nostro stanco sguardo, ci darà il coraggio di camminare sempre a testa alta. Ricordiamoci che questa è la nostra vera missione. Adesso, se mi scusate, sono molto provato, ho bisogno di riposare…” La decisione era insindacabile, il politico non aveva nulla da aggiungere, piuttosto sentiva il dovere di doversi confrontare con la propria coscienza da solo. Così, con aria pensierosa, scostò la sedia e si alzò, trascinandosi stancamente fuori dalla stanza senza nemmeno accennare a un saluto.

28 aprile

La strada che conduceva al penitenziario era decisamente dissestata, costellata da enormi crateri ricolmi dell’acqua piovana del recente acquazzone. Era stato, quello appena trascorso, un inverno per certi versi anomalo; freddo pungente ai primi di novembre, e poi temperature relativamente miti per il resto della stagione, con frequenti precipitazioni, anche intense. La primavera, dal canto suo, non stava lesinando sulla quantità di acqua piovana da riversare su quel fazzoletto di Canavese. Aimo Viale era un fine osservatore, sospinto costantemente dalla sua innata curiosità, ma al momento non poteva godersi il paesaggio rurale della campagna ai margini di periferia; era troppo intento nell’evitare le infide buche nell’asfalto in degrado.
Fu accompagnato al colloquio col direttore dopo le severe procedure di controlli e accertamenti; d’altra parte si trattava di un carcere di massima sicurezza e non c’era premura che poteva dirsi superflua. Era pur vero che, contrariamente alla prassi, la sua visita non era stata preannunciata dall’invio di documentazione per la canonica trafila cartacea, fatta di firme autenticate e timbri del Corpo, prevista dalla relativa norma dell’Ordinamento Penitenziario.
Attraversando i corridoi della struttura per raggiungere la direzione nell’ala opposta, superando le barriere che di volta in volta l’agente accompagnatore provvedeva a rimuovere, Aimo Viale ebbe modo di elaborare una serie di considerazioni, certo non pertinenti con la sua missione, piuttosto con la presa di coscienza delle crude emozioni scatenate dall’ansietà di cui quelle mura sembravano impregnate. Senza timore di imbattersi nei luoghi comuni più frequenti, si domandò dove realmente finiva la libertà prima di diventare prigionia. Non certo quella dell’essere in quanto soggetto, la risposta in quel caso era evidente, quanto piuttosto quella di relazione, quella dei sentimenti, quella su cui poggiava le fondamenta la nostra capacità decisionale. C’era un confine al di là del quale l’autonomia di ognuno di noi subiva dei condizionamenti determinanti? Se sì, chi, cosa ci forzava la mano? Sì, sì, l’educazione, l’ambiente, le amicizie e la nostra genetica, d’accordo, valenti luoghi comuni, ma non era sufficiente a giustificare i comportamenti più estremi.
Fu l’urlo di ribellione di un detenuto, rinchiuso chissà dove e chissà da quando – lui certo non ne poteva vedere alcuno – che gli suggerì lo spunto per poter sostenere di conoscere la risposta; era la sofferenza. Psicologica, sentimentale, fisica. Il che lo riportò – adesso sì c’era pertinenza – al motivo stesso della sua presenza al carcere di Ivrea. La sofferenza era quella di sua moglie, morta dopo un atroce calvario doloroso per un tumore al cervelletto nove anni prima. La sofferenza con la esse maiuscola, quella che lui, da allora, stava vivendo in prima persona e che l’aveva indotto a concederle l’eutanasia all’insaputa dei medici. Ma era stata un’eutanasia di coppia, e per lui un processo di morte lento, silenzioso e irreversibile. Nonostante tutto, qualche anno dopo aveva trovato nuova linfa vitale in un progetto di speranza.

“Il detenuto Zelko Pavic era un pessimo soggetto, violento e imprevedibile, ma credo che in fondo a lei non importi nulla” esordì il direttore subito dopo i convenevoli di rito.
“No, diciamo che la sfera comportamentale mi interessa solo marginalmente” replicò Aimo Viale non conoscendo affatto quali informazioni erano state passate all’uomo sulla natura del suo intervento.
“Non potrà però esimersi dal colloquio con la psicoterapeuta che si occupa dell’assistenza mentale ai carcerati, è una formalità che va sbrigata, se non altro per evitare la curiosità che si può innescare dall’eccezione.”
“Non è un problema.”
Poi ci fu un attimo di imbarazzante silenzio. Sembrava quasi che il direttore stesse aspettando una spiegazione dovuta, mentre lui non sapeva fino a che punto avrebbe potuto spingersi.
“Lei è la prima persona che riesce a entrare in questo istituto senza un’autorizzazione scritta” affermò sottovoce l’uomo attempato, “ma non mi deve chiarimenti, so stare al mio posto. Certo è che mi riesce difficile credere a una sperimentazione di routine, visto che questo non è un canale abituale, per usare un eufemismo... lei intende, dal quale attingere il vostro materiale di lavoro. Sarà che qui da noi non necessitate del permesso dei genitori.”
“Diciamo che non sono nelle condizioni di aggiungere molto a quanto le è stato detto.”
“Va bene. Quando prevede di procedere con il prelievo? Tenga conto che il cappellano ha fissato il funerale per dopodomani e dovendolo posticipare mi occorrerebbe una motivazione più che plausibile.”
“Non sarà necessario. Domani mattina. Alle otto. Verrò qua con l’attrezzatura e un mio assistente.”
“Bene, adesso venga con me,” disse l’uomo alzandosi dalla sedia, “andiamo a incontrare la dottoressa Negri.”

Il suo compito era assolutamente ingrato, ma lei lo aveva fatto per scelta o, come sosteneva nelle discussioni con gli amici, per vocazione.
Più che di supporto psicologico si trattava di assistenza mentale e i soggetti delle terapie non erano certo adolescenti disagiati, piuttosto criminali di varia natura, dagli stupratori agli assassini, dagli spacciatori ai camorristi.
“Buon giorno, professor Viale” gli porse la mano dalle lunghe dita affusolate e priva di anelli. “Conosco e apprezzo la natura dei suoi studi.”
‘Possibile?’ si chiese l’uomo.
“Ho letto alcuni dei suoi trattati.”
‘Ah, Ecco!’
Barbara Negri aveva uno sguardo penetrante che lasciava intuire una sicura intraprendenza. Anche nei modi pareva spigliata, e nonostante l’ossequiosa accoglienza, non sembrava affatto a disagio. “Immagino che il tessuto non verrà utilizzato come substrato sperimentale in ambito clinico, visto che la legge non consente…”
“Non credo di dover rendere conto proprio a lei del mio operato, signorina… signorina?” l’interruppe bruscamente lo scienziato.
“Era pura curiosità” sembrò non risentirsi lei. “Barbara. Barbara Negri.”
Aimo Viale non l’avrebbe definita una bella donna. Tuttavia, il modo in cui si era proposta aveva sollecitato un nervo scoperto del suo carattere dominante, per quanto sopito. Del resto era certo che la considerazione appena esternata non fosse casuale. E sarebbe stato il caso, volle augurarsi Aimo, che d’ora in avanti quell’insolente avesse tenuto a bada la lingua.
“Vede professore, il detenuto Zelko Pavic era un soggetto in qualche modo… particolare. Soffriva di crisi schizofreniche maniacali.”
“Bipolarismo?”
“Sì. Era senza dubbio afflitto da sindrome maniaco-depressiva. I suoi disturbi dell’umore erano stati scatenati con buona probabilità da problematiche affettive, in particolare dal rapporto con il padre. è stato lui stesso a confidarmelo. Violenze. Fisiche e psicologiche, perpetrate con assiduità nel corso della sua adolescenza.”
“Quindi il soggetto oscillava tra fasi maniacali e altre di depressione.”
“E nei tempi intermedi era assolutamente normale. Caratteristico.”
“Non mi dice nulla di nuovo, ma nella sua premessa aveva accennato a un soggetto particolare.”
“Il complesso edipico.”
“Il complesso di Edipo? è sicura di voler scomodare Freud per una patologia neurologica?”
“Vede, Pavic non ha fantasticato l’uccisione del padre. L’ha messa in atto.”
Viale mostrò un’espressione perplessa. “Per possedere la madre?”
“Si, dopo averla idealizzata. La particolarità sta nel fatto che i suoi sintomi maniacali sfociavano sempre in deliri di onnipotenza associati a disinibizione sessuale.”
“Cronico e delirante.”
“Ma soprattutto reattivo. Aveva bisogno di donne appartenenti a gruppi ben definiti. Indirizzava la sua aggressività su giovani ragazze indifese come sublimazione del delirio di grandezza, e poi infieriva con delle firme corporali, delle quali a onor del vero sono venuta a conoscenza più per deduzione che per una vera confessione. In realtà non sarei in grado di descriverle.”
“Va bene, molto interessante, ma ci stiamo spingendo un po’ oltre ciò di cui mi serve sapere. A me interessa solo che la sua condizione neuropsichiatrica non sia da ricondurre a problematiche anatomo-patologiche, malattia di Hartington o metastasi cerebrali su tutto.”
“No, lo escluderei a priori.”
“Crisi di epilessia?”
“Mai registrate. Senta professore,” la psichiatra si avvicinò all’uomo con fare suadente, “mi può confidare quale porzione di tessuto intende prelevare? Sa, sono molto curiosa, ma al tempo stesso…” si allontanò di scatto, “anche molto discreta.”
A Viale quella donna non era affatto simpatica, ma dovette riconoscere che aveva la capacità di riuscire là dove pochi altri erano stati in grado di far breccia; quel suo atteggiamento sfrontato, quel fissarlo con insistenza negli occhi per parlargli e nell’ascoltarlo, l’avevano messa nelle condizioni di procurargli una sorta di inquietudine interiore, e in questo lui intravide un potenziale pericolo in vista della fase cruciale del progetto. La sua perspicacia e la sua testardaggine avrebbero potuto indurla a cercare una risposta a quella domanda, la qual cosa avrebbe comportato il rischio di un’interferenza non accettabile. Ora, lui aveva due possibilità; o non risponderle affatto, scatenando l’ipotesi di cui sopra, o mentirle. Con un veloce ragionamento, tuttavia, optò per la terza. Le avrebbe detto la verità, placando così la sua inopportuna curiosità. “Parte dell’amigdala sinistra.”
La donna corrucciò la fronte. “L’amigdala analizza le esperienze correnti, confrontandole con il vissuto passato attraverso un metodo associativo, giusto?”
“Eccellente preparazione, signorina. Adesso possiamo concludere…”
“L’amigdala,” lo incalzò lei “può scatenare reazioni come il delirio prima che la corteccia sia in grado di elaborare gli stimoli esterni su ciò che sta accadendo, in maniera del tutto indipendente dal pensiero razionale, soprattutto nei soggetti sottoposti a eventi traumatici affettivi nei primi anni di vita. Come Pavic.”
“Signorina! Signorina! Io ho risposto alla sua domanda e pensavo che questo potesse bastare. Non sono venuto qua per fare un seminario sull’importanza del sistema limbico nella fobia sociale. Per cui, passiamo oltre! Avrei una certa fretta.”
“Senta, io non conosco come lei la chimica del cervello, ma più volte mi è sorto il dubbio che i neuroni di Pavic potessero aver subito delle modificazioni strutturali, non voglio dire una forma di mutazione genetica, ma… è possibile che nel suo cervello l’influenza dell’amigdala abbia preso il sopravvento sulla funzione di equilibrio esercitata dalla neurocorteccia dei lobi frontali.”
“Non diciamo sciocchezze, dottoressa!” ‘Dove diavolo voleva andare a parare quella donna?’ “Lei sa bene quanto me che l’unica modificazione dimostrabile è quella della trasmissione elettrica dell’impulso nervoso. è il suo campo di lavoro, se non sbaglio! Per quanto riguarda l’azione dell’amigdala poi… lasciamo perdere!” sbottò lo scienziato un po’ infastidito da questa interferenza.
“Non sia così severo con me” ribatté lei con una punta di sottile sarcasmo. “In fondo, a volte, con un’intuizione si è cambiato il volto della storia.”
“Non credo sia questo il caso” liquidò il discorso Aimo Viale.
“Se vogliamo venire al dunque…” intervenne finalmente il direttore prevedendo aria di tempesta.
“Buon’idea” asserì insofferente il neurochirurgo. “Innanzi tutto dovrei sapere in che modo è sopraggiunta la morte.”
“Le interessa per una questione biochimica?” domandò la donna con una tonalità che invitava all’armistizio.
“Sì. è una problematica legata al rilascio di endorfine relazionabili al tipo di decesso; per cause naturali o patologiche? C’è una sostanziale differenza nella quantità e nella tipologia.”
“Il che potrebbe interagire con la funzionalità del tessuto e indurre modificazioni dell’integrità anatomica.”
“è un’ipotesi verosimile, ma deve essere confermata” tagliò corto Viale
Barbara lanciò uno sguardo titubante al direttore. Toccava a lui prendere la parola. “Ufficialmente,” attaccò con una punta di incertezza nella voce, “è morto per arresto cardiaco. Il detenuto era iperteso. Nella documentazione che le ha preparato la dottoressa c’è anche il certificato di morte rilasciato dal medico di turno. Come potrà vedere, non è stata predisposta l’autopsia.”
“Nella realtà?” Aimo Viale aveva intuito dalla premessa che le cose non erano andate del tutto lisce.
“Traumi ripetuti da colluttazione.”
Il professore inarcò le sopracciglia.
“C’è stato un tentativo di aggressione da parte di Pavic a un agente, con conseguente corpo a corpo. Dopodiché è accaduto l’inevitabile. Un paio di colleghi sono accorsi in aiuto alla guardia e… sa come accade. Tutti loro sono animati da un considerevole spirito di gruppo. Un calcio di troppo, in mezzo al torace. L’arresto cardiaco non è un’invenzione.”
Aimo Viale ascoltava il racconto con espressione allibita. Il direttore sembrava sinceramente dispiaciuto, ma nel contempo non riusciva a nascondere un’orgogliosa soddisfazione per lo sviluppo positivo, a suo modo di vedere, della vicenda. In cuor suo sapeva che, con un minimo di autocontrollo – e forse di pietà – si sarebbe potuto evitare l’incidente, ma tanti anni di esperienza e di vita carceraria l’avevano portato ad approvare l’accaduto con solidale coscienza.
Fortuna loro, l’episodio era avvenuto in una zona isolata dell’ala nord, lontano da occhi e orecchie indiscreti; diversamente, e il direttore lo sapeva bene, si sarebbe scatenata una rivolta, con buona pace sua e di una carriera nei quadri dirigenziali del Corpo.
“è naturale che le chiediamo cortesemente la massima discrezione sull’accaduto.”
“Naturalmente” annuì lui con una convinzione del tutto utilitaristica. “Bene dottoressa, immagino che quello che ha da dirmi sia tutto contenuto lì dentro.”
“Esatto. E io la inviterei a leggere attentamente l’intero dossier, anche se so che ai fini pratici potrebbe risultare una fatica inutile.”
“Seguirò scrupolosamente il suo consiglio” fu la garbata reazione di Viale. Era evidente che entrambi conoscevano la sorte che avrebbe fatto il plico di carta; sarebbe finito quanto prima nel contenitore del riciclo nell’ufficio dell’uomo. è solo che in quel momento ognuno di loro aveva adoperato con professionalità e in maniera inappuntabile al proprio dovere. “Credo che io e lei non avremo più modo di vederci” disse infine mentre si alzava dalla sedia tendendole la mano per accomiatarsi.
“Sì, probabilmente sarà così. Ma stia tranquillo, seguirò con interesse lo sviluppo delle sue ricerche. In fondo, adesso posso dire di avervi partecipato anch’io” si congedò Barbara Negri strizzando l’occhio all’illustre interlocutore. Poi, e senza attenderne la reazione, si girò verso l’uscita, lasciando che un eloquente sorriso di soddisfazione le illuminasse il volto.

(...)

 


 

Enrico Di Bernardo, nato ad Ivrea nel 1965, è impiegato come responsabile di produzione
in un laboratorio di diagnostica. La sua fervida fantasia associata all’assidua frequentazione di romanzi di spionaggio e di avventura in genere, lo hanno indotto all’ideazione e stesura di tre manoscritti con soggetto 'fantagenetico', (di cui il primo, “Fredda pelle nera”, edito da Cicorivolta nel 2012), che hanno tratto fertile ispirazione dalla tipologia stessa del lavoro che svolge da molti anni.

“Genesi di un delirio” è il suo secondo libro.