i quaderni di Cico
 
 

 

 

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... e di Italo Gilles Lasalle, leggi anche L'ELENCO UNIVERSALE DELLE COSE TRISTI, il suo primo, strepitoso romanzo

 

titolo: RITRATTO DI DONNA DISTRATTA (la dama del destino)
collana i quaderni di Cico
autore Italo Gilles Lasalle
ISBN 978-88-95106-88-5
- pp. 225 - euro 13,00 - in copertina, olio su tela di Andrea Tarli , copywrite di Emidio Giovannozzi


New York 1997: una sfida estrema tra due campioni di dama al tavolo di un ristorante in una sera di pioggia. Le parole sono le pedine, la seduzione la scacchiera, il premio una donna, Iris. I giocatori, Steven e Robert. Chi vincerà? Quello tra i due capace di emozionare con la storia più bella.
È Steven a fare la prima mossa. Racconta la leggenda del pittore Gérard Candrace. Una vicenda struggente che inizia a Parigi nel 1900 dell’Esposizione Universale e delle Olimpiadi. Candrace vivacchia eseguendo ritratti. Un giorno, per caso, alla Gare de Lyon, una donna distratta involontariamente lo scontra. Candrace si volta, la guarda. È bellissima. Se ne innamora. La donna si chiama Katrine. Vive con lei tre giorni meravigliosi. Poi Katrine improvvisamente sparisce. Candrace la cerca. Invano. Per mesi. Si dispera. Impazzisce. Alla fine un’idea. Esegue il ritratto di lei su una locomotiva a lunga percorrenza, tratta Parigi-Budapest.
Tra maghi, furfanti, artisti e disperati, mentre il progresso incombe e i fratelli Lumière inventano il cinematografo, Candrace vive su quel treno quattordici anni fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

E ora? Che mossa farà Robert per raddrizzare la partita a suo favore? Riuscirà a scovare una storia altrettanto intrigante? L’amore, spesso, non è altro che una grande illusione. A volte un impressionante gioco di prestigio. E la vita, una buffa, allucinante, fantasmagoria.

 
 

Brani tratti da RITRATTO DI SONNA DISTRATTA

Uno


“... Ciao…
… per anni la tua immagine è arrivata a me attraverso uno specchio d’acqua: rifratta, distorta, ingigantita.
Ora che anche l’ultima goccia d’acqua si è asciugata, quel piccolo essere rimasto sul fondo si mostra per quello che è: tanto più minuscolo quanto più si agita per farsi notare…
Ciao!
C’è sempre stata l’acqua, in ogni nostro incontro.
L’acqua del fiume, ad esempio, nelle nostre passeggiate sul lungosenna. Parigi allora era davvero bella, con la Tour Eiffel sullo sfondo di ogni scena, in bianco e nero, tu che mi guardavi controluce, ridendo, quel tuo sorriso aperto, gli occhi lucidi di gioia in primo piano. O l’acqua della pioggia quando ci riparammo - ricordi? - sotto la tenda di quel negozio, gocciolanti, a sghignazzare riflessi sulla vetrina. Era sera. E l’acqua che ti rovesciai addosso al primo appuntamento? Avevo scontrato sbadatamente la bottiglia sul tavolo del Café, bagnandoti tutta. Più tardi levasti disinvolta la camicia e intravidi i tuoi capezzoli sfrontati attraverso la seta chiara: sembrava una farsa. O l’acqua che mi tirasti addosso tu all’ultimo incontro, un bicchiere di acqua fredda in faccia - mi fece male - non perché era fredda, mi fece male il bicchiere.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, come si suol dire. Che espressione! Di tragica banalità. A volte penso come sarebbe bello mettere delle dighe a certe nostre fasi della vita ma poi penso: un lago, noi?
Naah! - ricordi? - Dicevi proprio così. Non “no” o “ahh”, tu fondevi entrambe le parole in un’unica sillaba prolungata…
C’è sempre un portatore d’acqua in ogni coppia, mentre l’altro corre felice, sapendo che ad ogni sosta c’è chi è pronto a dissetarlo.
L’acqua, sempre l’acqua. Quante immagini con l’acqua, talmente condivise da non sembrare più nemmeno nostre. Forse per questo più sopportabili.
Già.
Come l’acqua della pozzanghera che la ruota di quell’auto ci schizzò addosso appena usciti di casa, vestiti di tutto punto, io con tight e cilindro e tu in abito bianco. Bellissima scena. Lì, inzaccherati, ci sentimmo veramente ridicoli, uguali identici alle statuine sulla torta di nozze. Era un trucco. Un formidabile effetto! Noi e le statuine, sovrapposti. Ma, anziché sopra una montagna di panna, eravamo giunti alla sommità del baratro, pronti a sprofondare ognuno da una parte diversa.
Per non vederci mai più.
Per anni ho creduto che questo fosse il motivo della tua fuga: l’incomprensione.
Come potevo sapere io che era tutto finito?
L’indomani mi presentai all’appuntamento ma non c’eri.
Nessuno, c’era.
Soltanto alcune bottiglie d’acqua sul tavolo, come una scena smantellata in fretta, ecco fatto, attori svaniti, luci spente.
Un giorno, tanti anni dopo, una mattina rarefatta, una mattina di sole in cui si scorge sulla linea dell’orizzonte il profilo evanescente di qualche montagna, mi pare di averti incontrata.
Tu, appesa ai tiranti della tua nuova vita, e io altrettanto, sul lato opposto del marciapiede, talmente aggrappati alle nostre abitudini da non riuscire nemmeno ad attraversare la strada.
Ti ho vista. Eri tu. Almeno credo. Anche tu, mi è sembrato, mi hai notato. Ma è stato un attimo. Poi sei sparita, convogliata dal flusso delle persone nella scalinata buia della metropolitana, come se la terra ti avesse inghiottita.
Allora, ricordo, ho guardato l’orologio al fondo della strada, l’orologio incastonato nella facciata austera della stazione ferroviaria, sulla torre de la Gare de Lyon, quell’orologio enorme, liberty, con le lancette floreali e i numeri romani, quell’orologio rotondo e un po’ rétro.
Ricordo che segnava le tre.
Ma era fermo da sempre”.

New York, 1997. Tre persone sedute al tavolo di un ristorante: due uomini, e una donna. Gli uomini si chiamano Steven e Robert. Sono entrambi giocatori di dama, o meglio, campioni. Da anni si alternano al vertice della classifica mondiale. Al loro fianco la donna. Il suo nome è Iris. Fuori piove. Anzi, diluvia.
Chi riuscirà a conquistare il cuore di Iris?
Il tavolo è una scacchiera immaginaria.
Steven adesso tace.
Mastica lentamente un boccone di cibo. Ha iniziato il suo racconto dalla fine. Dalle ultime frasi pronunciate da Candrace prima di morire. Una bella mossa. È così che vuole cominciare la sua partita. Con questa storia struggente.
Robert lo guarda compiaciuto. Forse si aspettava un tale inizio di partita. Non forse. Sicuramente. Sanno tutti e due che la gara si disputerà con pedine inconsuete: le parole. Il racconto migliore… quello scioglierà il cuore di Iris. Ognuno di loro avrà a disposizione un certo numero di emozioni. Facciamo dieci? Dieci. Stretta di mano.
Ora Steven è in silenzio. Aspetta. Attende che Iris lo preghi di continuare. Ha addentato uno stuzzichino. Lo assapora, morbidamente.
Ogni tanto s’ interrompe e le getta uno sguardo.
D’intanto.


Due


New York, 1997
(mezz’ora prima)

Piove incessantemente da tre settimane sopra New York.
Le strade sono intasate e i tombini anche. L’acqua sgorga dai condotti fognari, dalle tubature rotte, dai monconi dei pluviali divelti dal vento. Pioggia che cade dal cielo e zampilla dalle strade. Acqua sopra e acqua sotto. Potrebbe sembrare uno spettacolo seicentesco, una gigantesca Versailles improvvisata dall’amministrazione comunale, se non fosse che siamo alla fine del Ventesimo secolo e di spettacolare in questo nubifragio c’è ben poco. A tratti manca l’energia elettrica e l’acqua spruzza ovunque senza alcuna sincronia.
Allora il fermento idrico diventa invisibile, se ne sente solo il fragore, il sibilo, lo scroscio.
Spaventevole.
Il maltempo concede solo alcuni imprevedibili attimi di tregua. Pochi minuti, tra una burrasca e l’altra, sufficienti per attraversare la strada e trovare riparo dentro un portone o all’interno di un locale. Robert e Iris ne approfittano per uscire dalla mostra di quadri. Una corsa e ricomincia a diluviare. Si ficcano dentro un ristorante. Cinese.
Levandosi il soprabito inzuppato, Robert esclama: - Che tempaccio!
- Plego - sorride il cameriere indicando loro un tavolo. Oggi, grazie al temporale, ha servito almeno venti portate in più.
Prendono posto. Iris estrae dalla borsa un piccolo specchio e si sistema i capelli.
- L’avresti detto che finiva così?
- Hanno dato pioggia, ma questo è un vero diluvio. Comunque, grazie per avermi portato alla mostra. Come si chiamava l’artista?
Ha già scordato il nome. Fa sempre così. Per lei conta l’avvenimento mondano, qualunque cosa sia. Conserva ancora il depliant nella borsa. Lo cerca mentre Robert le risponde.
- Candrace. E si pronuncia proprio come si scrive. Aveva origini italiane, abruzzesi, forse.
- Ah, sì! È vero. Bravo.
Il cameriere porta l’acqua e qualche stuzzichino.
Rumore di tuoni e suoni di clacson nella strada.
Robert si serve per primo.
Iris lo rimprovera con lo sguardo.
- Fame?
- Uhm… - risponde ingozzandosi. - Serviti, è buono.
Lei prende qualcosa, mordicchiandolo appena.
Il loro tavolo è di fronte alla vetrina. Fuori sta scoppiando di nuovo il finimondo. L’acqua batte sui vetri, un rumore sordo e a tratti fastidioso.
Sotto la tenda del ristorante un uomo trova riparo.
È sulla quarantina. Alto, magro, leggermente stempiato, con il viso simpatico.
Vedendolo Robert esclama: - Ehi! Ma quello è Steven.
L’ultima volta che ha visto Steven è stata a Dublino, nella finale per il titolo europeo. Ma è trascorso oltre un anno.
- Steven! - urla inutilmente.
Iris lo compatisce con lo sguardo.
Robert allora bussa sul cristallo.
Steven si volta, riconosce l’amico. Sorride, sorpreso.
Una pantomima con il vetro in mezzo.
Robert, agitando le mani: - Dai, entra!
Steven, indicando l’orologio al polso: - Meglio di no. È tardi.
Robert, lasciando cadere le braccia sui fianchi, con espressione delusa: - E su, non farti pregare!
Iris ferma, sbigottita a guardare lo spettacolo triste dei due mimi improvvisati, di cui uno è il suo attuale compagno. Un desiderio irrefrenabile di scomparire. Dai tavoli vicini alcune toccatine di gomito e qualche sorriso mal trattenuto.
Alla fine Steven entra. I suoi vestiti sono molto bagnati, le scarpe inzaccherate, la faccia stanca. Avrebbe fatto volentieri a meno di quell’invito.
Avrebbe preferito correre a casa e farsi un bagno caldo.
Comunque si siede.
Robert lo presenta alla sua compagna.
- Steven, questa è Iris. Iris, lui è Steven.
Stretta di mano.
- Come mai da queste parti? - domanda Robert all’amico.
- Sono qui per la maratona.
- La maratona? Tu?
Steven non accoglie con piacere questa ironia gratuita. Perché mai gli amici si permettono certe confidenze?
- Ho smesso di fumare - risponde infastidito. - Per farlo mi sono messo a correre. Adesso non riesco più a smettere… di correre, intendo.
Robert sembra soddisfatto della risposta. Poi si rivolge a Iris.
- Ti ho mai parlato di Steven? Sicuramente lo conoscerai. È il miglior giocatore di dama al mondo… dopo me, ovviamente.
Iris abbozza un sorriso. Sì, li conosce entrambi.
Come non potrebbe? Da anni si alternano ai vertici della classifica mondiale. O è primo uno o è primo l’altro. Da quasi due lustri. La televisione più volte ha mandato in onda servizi e notizie al telegiornale. Eppure, nonostante la rivalità, sono amici.
Robert è a New York per una contemporanea dimostrativa. Cinquanta sfidanti, tutti di età inferiore ai quindici anni, promesse della dama, campioni in erba. La competizione si svolgerà domani, alla presenza di Richard Harrison della televisione. Robert ha già concesso un’intervista e le telecamere riprenderanno la gara in diretta. Ma è per un altro motivo che Robert elogia il suo amico a Iris.
- È lui che mi ha fatto conoscere la storia di Candrace.
Alcuni fulmini squarciano il cielo. La notte è calata all’improvviso.
Robert è a New York da tre settimane e non ha mai smesso di piovere. Un pensiero fulmineo lo fa riflettere sul fatto che il suo soggiorno coincide con il temporale. Tre settimane di interminabili piogge. Ma anche la relazione con Iris ha la stessa durata. Ha incontrato Iris a una cerimonia svoltasi in suo onore, per il raduno internazionale dei circoli di dama. Iris è un’industriale. Del ramo giocattoli. Produce giochi di società. Voleva saperne di più sulla dama, fa parte del suo mestiere informarsi, dopotutto. Così sono finiti a cena e poi a letto.
Robert si sente soddisfatto del suo comportamento. Durante il primo approccio, per la verità molto breve, è stato in gamba con lei. Ha sempre omesso di parlare di sé, come tutti i grandi; ogni tanto, se glielo chiedevano, firmava autografi. Iris si è lasciata affascinare da tanta popolarità. Ora stanno insieme. Come una coppia di veri fidanzati, se fidanzamento si può definire una relazione così.
- Dai, Steven, raccontala anche a Iris la vera storia di Candrace. Così come l’hai raccontata a me.
Steven si fa un po’ pregare. Guarda Robert.
Gira gli occhi verso Iris. Gli pare curiosa. Ma di fronte a quello sguardo insistente ha abbassato gli occhi.
Occhi scuri.
- Davvero ti va di ascoltarla? - chiede a un certo punto, rivolto esclusivamente a lei.
Iris mormora un sì.
In effetti Steven fa un po’ il prezioso. È consapevole che il suo sarà un bel racconto.
- Beh, se proprio insistete…
Così Steven ha iniziato la sua esposizione, dalla fine. Dall’ultima cosa che il grande Candrace ha detto. O che si narra abbia detto. Ha raccontato la storia dell’acqua, o forse, meglio, quella che è diventata nota come “la storia scritta sull’acqua” a rappresentare un rapporto instabile, provvisorio, destinato ad affogare.
- Tieni bene a mente - precisa rivolto a Iris - il particolare dell’orologio della stazione. Perché proprio lì Candrace ha incontrato la donna che ha cambiato la sua vita. Un giorno qualunque del secolo scorso, all’alba del Novecento. Un pomeriggio in cui quell’orologio, che al tempo funzionava ancora, segnava le tre. Ricordatene, ti prego - sussurra a Iris - è importante.
Poi mastica ancora qualcosa. Attende che Iris gli chieda di continuare. Non deve aspettare molto. Iris pare supplicarlo con gli occhi.
Steven riprende il suo racconto. Stavolta dal principio.
Robert lo guarda orgoglioso. E soddisfatto.
Sarà una bella gara, sarà.


Tre


- Anche il giorno in cui inizia questa storia pioveva - dice Steven. - Parigi, al tempo, era romantica come una cartolina illustrata, colori un po’ sbiaditi, tinte pastello sull’azzurro del cielo e ocra degli sterrati. Delicati scorci attraversati dalle ruote dei carri e il bianco degli sbuffi dei vaporetti sulla Senna.
Era il 1900. Né più né meno.
Era il 1900 a Parigi: l’alba del Ventesimo secolo, l’anno dell’Esposizione Universale.
Provate a immaginare le strade piene di colori, i manifesti pubblicitari, le vetrine eleganti; e le signore che sfilano lungo i marciapiedi affollati, avvolte nei loro vestiti raffinati, come su una passerella di moda, sfoggiando bizzarri cappellini, pronte a girarsi e sorridere al suono dei clacson dei pochi giovani privilegiati sulle loro automobili; e il profumo dei dolci che si diffonde nell’aria attraverso i comignoli delle pasticcerie; e ancora, i lavori di abbellimento della capitale che proseguono a ritmo sfrenato con centinaia di operai, impegnati nell’opera di interramento dei primi cavi elettrici; e, infine, i turisti che giungono in città da ogni dove, impazzendo alla vista delle scale mobili, dei tram, dello spettacolo maestoso della Tour Eiffel; provate a immaginare, insomma, la Belle Époque.
Steven si interrompe. Poi soggiunge, quasi rimuginando tra sé: - Ma non era così per tutti.
Sempre profondo, Steven! Robert ha la sensazione che nasconda un bagaglio di riflessioni precostituite da sciorinare al momento opportuno.
Dietro la grande vetrina della città, illuminata a giorno anche in piena notte, pulsava una vita di povera gente, una vita di vicoli, di pensioni maleodoranti, di case fatiscenti e di panni stesi ad asciugare. E proprio qui comincia la nostra storia, in uno di questi vicoli, dove un gatto affamato e denutrito sta uscendo furtivamente da un bidone dell’immondizia, lì, a pochi passi dal lungosenna e a poche centinaia di metri dalla Tour Eiffel.
In un edificio scalcinato, in un viottolo buio, c’era un negozietto modesto, con una sola vetrina e due persone all’interno. Sull’insegna di legno, rovinata dalle intemperie, una scritta: “Gérard-peintre”, ossia Gerardo il pittore.
Mentre i ricchi attendevano in fila per entrare al Moulin Rouge e si perdevano ad ammirare le donnine che ballavano il can-can, mentre veniva inaugurata la Gare de Lyon da cui partivano tutti i treni per il sud della Francia, e ovunque si potevano notare i manifesti dipinti da Toulouse-Lautrec, la gente comune faticava a mettere insieme il pranzo con la cena. Tra questi c’erano il pittore Gérard Candrace e il suo amico Alain.
Gérard era un ometto magro e asciutto, pizzetto biondiccio e capelli lunghi riccioluti, debole di costituzione e incline alla malinconia. Viveva in un bugigattolo collocato sopra la bottega: due sole stanze, camera e cucina, con il gabinetto nella corte dello stabile.

Fuori intanto continua a piovere. Il cameriere cinese ha servito le prime portate e ha acceso le candele nel caso mancasse la luce.
Involontariamente ha creato un’atmosfera romantica. Il volto di Iris, illuminato dalla fiamma della candela, sembra ancora più dolce. Solo un attimo di incertezza, poi Steven si rischiara la voce e prosegue.

- Era una giornata di pioggia e Gérard stava attaccato alla porta con la faccia malinconica e un po’ dimessa, a pensare che, con un tempaccio del genere, nessuno avrebbe fatto visita alla sua bottega. Nessun cliente. Nessuno di quelli con i soldi. D’altronde i ricchi si fermavano alla superficie della città, alle vie principali, ai viali alberati e ai battelli sul fiume. Non entravano nei vicoli impregnati di odore di cavoli e di carne putrida dei macelli improvvisati. Tanto meno in una giornata di pioggia.
E, a causa della pioggia, lui non poteva uscire. Spesso si recava sul lungosenna indossando il basco da pittore e la camicia bianca con le maniche a raglan. Sgabello e cavalletto, teneva al fianco la sua valigetta di colori e pennelli. Andava a fare l’artista, pensava con grande autoironia. In tali occasioni doveva per forza indossare un costume riconoscibile, stereotipato, per la gioia di coloro che, passandogli accanto, avrebbero esclamato: “Uh! Guarda! Un pittore!” identificando l’artista per il suo abito e non per i suoi quadri.

- Giornataccia, oggi, non credi? - affermò rivolto ad Alain.
Alain non rispose.
Stava meditando su una possibilità che solo nei momenti peggiori gli balenava alla mente: recarsi al cimitero. Erano tanti quelli che si facevano seppellire chiudendo nella bara i loro oggetti più cari, un orologio, una catena d’oro, un anello.
Avrebbe potuto provare a disseppellire qualche cadavere. Sarebbero bastati una vanga, il buio e un po’ di sudore. Ma sì! Cos’aveva da perdere?
Magari, se Gérard gli avesse fatto da complice…
Quando si voltò verso l’amico cambiò subito idea.
Gérard lo stava guardando in attesa di una risposta.
- Cos’hai detto? Scusa, ero soprappensiero.
- Dicevo che oggi è una giornataccia. Mi sa che sarà dura, per un po’.
- In effetti… - rispose Alain.

I due erano coetanei, trentunenni per l’esattezza, anche se l’abuso di alcool e di fumo aveva invecchiato a tal punto il viso di Alain da far apparire una differenza di almeno dieci anni tra loro.
Alain era un commerciante di quadri, o almeno, così lui si definiva. Moro, con il viso butterato, solcato da una lunga cicatrice sulla guancia destra, postumo di una rissa di gioventù, indossava un vestito nero, logoro e consunto sui gomiti e sulle ginocchia. Teneva le mani in tasca, un po’ per ripararsi dal freddo e un po’ per celare la mancanza del mignolo sinistro, lasciato sotto una vetrata anni prima. Alain non aveva nessuna remora a ricordare quel giorno. Aveva deciso di svaligiare un negozio, ma la vetrata, abilmente divelta, gli cadde sulla mano amputandogli il mignolo. Una perdita che gli valse due anni di prigione e la sfortuna, ben peggiore, di firmare in maniera indelebile tutti i suoi colpi successivi.
- Ci sono solo quattro dita nelle impronte - asseriva la Gendarmeria, - andiamo a cercare Alain.
Anzi, qualcuno, più malandrino di lui, approfittava di questa circostanza. René, detto l’astuto, si legava apposta con del nastro il mignolo all’indice prima di eseguire qualche spaccata. Tra i due non correva buon sangue da tempo immemorabile, dal giorno in cui, per la precisione, Alain aveva soffiato un affare a René e quest’ultimo si era trovato due tizi armati ad attenderlo sotto casa. Così René non perdeva occasione per vendicarsi e far ricadere su Alain la paternità dei suoi crimini.
Ed era riuscito a meraviglia nel suo intento. Venuta meno la sua principale forma di reddito, ossia i furti, e con i gendarmi sempre alle costole, per via di una vecchia storia di distillerie clandestine, le magre entrate di Alain si fondavano prevalentemente sui quadri che riusciva a piazzare. Cioè, Gérard dipingeva e Alain vendeva.

Gérard prelevò un tozzo di pane secco da un canestro di vimini e un pezzo di formaggio ormai ridotto alla crosta, avvolto in uno straccio ingiallito.
Stava per offrirne, ma si accorse che l’unica cosa che poteva fare era sfregare quella crosta sul pane raffermo, per dargli un po’ di odore.
Alain rifletté sul fatto che la città è come un imbuto, un grosso recipiente con una strozzatura: quel vicolo nel quale loro erano costretti a vivere e dove il benessere non riusciva a entrare. I soldi si fermavano alla fine del viale, dove la città si trasformava in periferia.
Eppure, un’alternativa per raggranellare un po’ di soldi c’era, ci sarebbe stata. Sicuramente. Si trattava di vendere “quel” quadro. Il quadro a cui Alain mentalmente si riferiva rappresentava un corpo femminile.
Una donna nel momento in cui esce dall’acqua: alta, sensuale.
Una donna bellissima.

- Se esiste qualcosa di oggettivo nella bellezza femminile - si interrompe Steven, - molti sostengono che consista in questo: nell’armonia. Armonia delle forme, proporzione degli arti, grazia. Io però non la penso così.
Si prende una pausa. Fa un grande sospiro.
- Io credo - prosegue - che la bellezza sia un qualcosa che trascende le forme, va oltre. Una specie di emanazione, sarei propenso a dire. A volte penso, quando mi riferisco a quel dipinto, che la donna in esso rappresentata sarebbe stata bella anche qualora mancante di una parte. Mi allargo troppo se cito la Venere di Milo? Senza braccia, ma splendida.
Ecco, il soggetto rappresentato in quell’opera di Candrace, era così. Talmente sensuale e seducente che il suo fascino oltrepassava le forme. Non le si vede la mano sinistra, che tiene dietro la nuca, tra i capelli bagnati. Potrebbe anche non possederla.
Cosa cambierebbe? Sarebbe per questo meno bella?... Scusate la divagazione. Torniamo alla nostra storia.
La donna dipinta era un capolavoro di avvenenza: magra, lunghe gambe sottili di cui si intuisce però la stessa dirompente forza degli arti di una giumenta, capaci di esplodere alle sollecitazioni dei tendini, che sanno imporre alla caviglia l’impulso di uno scatto, con il piede che si flette sulla punta delle dita, lunghe dita sensuali, e imprime il movimento lasciando sulla sabbia l’impronta di se stesso. Così perfetta che andresti lì a prelevare quel calco per riprodurlo in migliaia di esemplari. Uno spettacolo di geometrica grazia, seducente eppure involontariamente asessuato, come l’orma della zampa di un gatto sulla battigia. E poi il ventre, piatto, al cui interno spicca incastonato l’ombelico, quasi che la gemma sia dentro, al rovescio, uno splendido brillante che un minatore scopre incluso nel quarzo di una roccia, e di cui vede solo la base, provocante al punto che pare dire al minatore in estasi - Mi vuoi? Dovrai faticare per avermi! Ma scava, chissà che… E gli occhi, quello sguardo penetrante e al tempo stesso conciliante che sembra l’ingresso di una caverna, quei giochi da baracconi, con la donnina seminuda in primo piano che sorride e dentro i diavoli e i fantasmi, che quando sei entrato, poi, voglio vederti a uscirne come prima, un po’ ha toccato la tua anima e ne hai paura, ma non riesci a resistere alla tentazione che quella macchina ti catturi e faccia di te ciò che vuole. Per non parlare del collo, della pelle liscia sul collo, che se un giorno Modigliani ha cercato un modello, può solo dolersi di non averla conosciuta una donna così. È una Venere. Ma per Gérard il passato è solo una fonte da cui trarre ispirazione.
La donna si passa una mano sui capelli bagnati, mentre l’altra, assurdamente, regge un ombrellino. Una scheggia di presente nel passato, un contrasto voluto e simbolico. Gérard ha battezzato il suo quadro “Venere con l’ombrellino”, tanto per non mancare all’impegno morale preso con il suo stile.
Ogni volta, pensando a quel quadro, Alain si irritava ancora di più. Aveva già trovato un acquirente per quella crosta, ma Gérard non voleva sentire ragioni.
Mai si sarebbe disfatto del dipinto.
C’era una ragione in ciò. Un segreto motivo.
Si era innamorato del volto ritratto.
Gérard era convinto, senza saperne il perché, che un giorno avrebbe conosciuto una donna bella come quella del quadro. Avrebbe vissuto con lei. Per sempre! Per ora si accontentava dell’immagine. Utile: come ogni surrogato. Indispensabile, a volte.
Soltanto di fronte all’originale, in carne e ossa, avrebbe potuto liberarsi… liberarsi, sì… di quell’immagine inventata. Di quell’ossessione. Idea fissa. Chiodo. Tormento. Piacevolissimo tormento. Incantevole!

Come dicevamo, pioveva e Gérard sentiva dolore alle mani. Guardava ogni tanto oltre la tenda di raso della vetrina. Lercia.
- Perché non dipingi qualcosa? - gli chiese Alain mentre girava la mano nella tasca bucata, riflettendo sul fatto che non possedeva più nemmeno una monetina.
- Ho male alle ossa - rispose Gérard.
Alain estrasse dal taschino interno della giacca una piccola bottiglietta di liquore e la finì con una sorsata.
Dopo aver bevuto si rese conto della sua maleducazione. Non ne aveva nemmeno offerto un sorso a Gérard. Ma ormai era tardi per rimediare.
- Come vuoi - concluse. - Io esco. Devo vedermi con un tizio per un affare.
Gérard rimase lì, a guardare la pioggia che cadeva e quel volto…

… il volto con i capelli bagnati di una donna che esce dal mare con un assurdo ombrellino di stoffa gialla.

La donna di cui era perdutamente innamorato.


Quattro


Steven si alza per farsi dare una nuova forchetta. Quella che stava usando gli è caduta.
Indossa una felpa rossa e delle assurde scarpe da maratona bianche con alcune strisce blu sui lati. Fuori dal ristorante continua a diluviare. Il nuovo mondo contro il vecchio mondo. Pensa a questo mentre si allontana dal tavolo. Gli piace New York, ma a tratti è convinto che nella vecchia Europa si troverebbe più a suo agio, magari in una biblioteca colma di libri o dentro un cinema di quelli di una volta, enorme, con tante poltrone vuote e la maschera che passa a distribuire pop-corn e coca cola. Due prodotti del nuovo mondo. È sempre stato incerto sulla direzione della sua vita.
Anche quella volta a Gibilterra...
La sala era affollata di spettatori.
La semifinale vedeva i due avversari contendersi il passaggio alla finale del titolo europeo.
Robert non aveva smesso per un attimo di fissare la scacchiera. Invece lui, Steven, non riusciva a staccare gli occhi di dosso a una ragazza. Per tutta la partita non era stato in grado di ottenere la dovuta concentrazione.
La ragazza si chiamava Josephine. Era di Chicago. E l’indomani sarebbe partita. Via, dall’altra parte dell’oceano. E lui? Lui sarebbe rimasto lì, altri due giorni, per la finale. Non riusciva più a vedersi in Europa. Voleva seguirla, rincorrerla…
Perse l’incontro. Volontariamente. L’indomani prese anch’egli l’aereo per Chicago.
Steven si riprende dal ricordo. Il cameriere gli porge una nuova posata e lui si sofferma a scambiare qualche parola con i suoi consueti modi garbati e gentili. A volte smodatamente gentili - pensa Robert - e perciò irritanti.
Quando torna, passando accanto a Iris, le domanda:
- Davvero ti piace questa storia?
Robert dà un’occhiata a Iris.
- È una storia bellissima… - risponde lei che si accorge di essere scrutata. - È bravo il tuo amico a raccontare - aggiunge rivolta a Robert.
Steven si sente lusingato. Ha apprezzato anche quel tuo detto con distacco. Guarda Iris negli occhi. Robert invece ha gli occhi affogati nel piatto.
- Hai sentito, Iris?- chiede masticando. - Hai sentito che storia? - e insiste affinché Steven riprenda il racconto.
- Vai avanti, ti prego, Steven. Faccio portare dell’altro riso alla cantonese?
- Per me no - risponde Iris.
Steven annuisce con lo sguardo.
- Cameriere? Cameriere? - urla Robert. - Forse è meglio se mi alzo e vado in cucina. C’è così tanta gente stasera…
Si allontana. Iris non sa dove guardare. Mastica piccolissimi bocconi, imbarazzata. Ha paura di affrontare gli occhi di Steven. C’è qualcosa di magnetico in quello sguardo.
Vuole versarsi dell’acqua minerale. Allunga il braccio. Steven fa altrettanto. Le loro mani si sfiorano sul vetro della bottiglia, nel pieno rispetto delle regole del corteggiamento, banali quanto consolidate. Iris ritrae la mano. Ora tutto il resto lo faranno il tempo, il destino e quel pizzico di complicità che non guasta.
Robert ritorna. Felice.
- Ho ordinato il pollo. Con tante mandorle. Adoro le mandorle.
Un tuono scuote la vetrata. Alcune donne sobbalzano sulla sedia. All’improvviso mezza città rimane al buio. Si vede in lontananza la sottile linea grigia dell’inquinamento nel cielo illuminato dai fulmini. Si sente la sirena dei pompieri. Una metropoli senza luce è come uno squalo senza denti: terribile e ridicolo allo stesso tempo.
Ma lì l’energia elettrica c’è ancora. Almeno per il momento. E, comunque, ci sono le candele accese.
Steven rammenta la scena di un romanzo. Tanti uomini dentro uno scomparto ferroviario e una sola donna. Il treno entra in galleria. Manca la luce. Qualcuno bacia la donna. Chi di loro? Si domanda a chi penserebbe Iris se andasse via la luce e ricevesse un bacio. Se all’azzardo del pretendente o all’affetto di Robert. Un pensiero fulmineo.
Sono le venti e venti. La cena proseguirà sino alle undici, undici e mezza, forse. Poi? Poi dovranno uscire. Potranno temporeggiare ancora una mezz’ora in attesa che spiova. Oppure chiamare un taxi. Ce ne sarà qualcuno libero? Boh! Qualsiasi cosa faranno, per ora sembra ancora lontana.
Iris riceve una telefonata. Di lavoro.
- Sì, sì, domani andremo in produzione, cinquemila scatole… è un gioco bellissimo… ma certo che per Natale andrà a ruba! Questa è solo una prova. Se vende adesso, per le festività la produzione sarà massiccia. È passato lo spot in tivù? D’accordo. Bene. A domani.
È donna d’affari. Ma il fatturato della sua azienda quest’anno è diminuito. Con i giochi provenienti dalla Cina i costi di produzione sono insostenibili. La lotta si è fatta impietosa. Ci vorrebbe qualcosa, un’idea per battere la concorrenza. Per un attimo la sua mente è altrove. Se non accade un miracolo, più di trecento suoi dipendenti dovranno essere licenziati. Non è certo una bella prospettiva sotto Natale.
L’espressione del suo viso si contorce in una ruga di disappunto.
- Qualcosa non va? - domanda Robert.
- No, nulla. Le solite questioni. Scusate… dove eravamo rimasti?
Steven riprende il suo racconto.

(...)

 

Italo Gilles Lasalle è lo pseudonimo con il quale Roberto Centazzo, Ispettore Capo della Polizia di Stato, si diverte da anni ad essere ghost-writer di se stesso.
Celandosi sotto le spoglie di un fantomatico quanto avventuroso scrittore sudamericano, ha già pubblicato i romanzi Per terra ho annusato la vita (Il Pontevecchio- Cesena, 2008) vincitore del Premio letterario Il libro parlante ed. 2007 e
L'elenco Universale delle cose tristi (Cicorivolta, 2008) - 1 dei 101 libri più belli del mondo - vincitore del Premio Piccola Editoria Indipendente di qualità, 2009.

Come Roberto Centazzo, ha creato il personaggio di Lorenzo Toccalossi, Procuratore della Repubblica di Savona (città ove risiede il nostro Ispettore Capo-Scrittore), protagonista del romanzo Giudice Toccalossi, indagine all'ombra della Torretta (Fratelli Frilli Editori, 2010) cui seguirà, Toccalossi e il fascicolo del '44 (in uscita a marzo 2011 ancora per Frilli).