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       Brani 
        tratti da RITRATTO 
        DI SONNA DISTRATTA 
      Uno 
       
        ... Ciao
 
        
 per anni la tua immagine è arrivata a me attraverso uno 
        specchio dacqua: rifratta, distorta, ingigantita. 
        Ora che anche lultima goccia dacqua si è asciugata, 
        quel piccolo essere rimasto sul fondo si mostra per quello che è: 
        tanto più minuscolo quanto più si agita per farsi notare
 
        Ciao! 
        Cè sempre stata lacqua, in ogni nostro incontro. 
        Lacqua del fiume, ad esempio, nelle nostre passeggiate sul lungosenna. 
        Parigi allora era davvero bella, con la Tour Eiffel sullo sfondo di ogni 
        scena, in bianco e nero, tu che mi guardavi controluce, ridendo, quel 
        tuo sorriso aperto, gli occhi lucidi di gioia in primo piano. O lacqua 
        della pioggia quando ci riparammo - ricordi? - sotto la tenda di quel 
        negozio, gocciolanti, a sghignazzare riflessi sulla vetrina. Era sera. 
        E lacqua che ti rovesciai addosso al primo appuntamento? Avevo scontrato 
        sbadatamente la bottiglia sul tavolo del Café, bagnandoti tutta. 
        Più tardi levasti disinvolta la camicia e intravidi i tuoi capezzoli 
        sfrontati attraverso la seta chiara: sembrava una farsa. O lacqua 
        che mi tirasti addosso tu allultimo incontro, un bicchiere di acqua 
        fredda in faccia - mi fece male - non perché era fredda, mi fece 
        male il bicchiere. 
        Ne è passata di acqua sotto i ponti, come si suol dire. Che espressione! 
        Di tragica banalità. A volte penso come sarebbe bello mettere delle 
        dighe a certe nostre fasi della vita ma poi penso: un lago, noi?  
        Naah! - ricordi? - Dicevi proprio così. Non no o ahh, 
        tu fondevi entrambe le parole in ununica sillaba prolungata
 
        Cè sempre un portatore dacqua in ogni coppia, mentre 
        laltro corre felice, sapendo che ad ogni sosta cè chi 
        è pronto a dissetarlo. 
        Lacqua, sempre lacqua. Quante immagini con lacqua, talmente 
        condivise da non sembrare più nemmeno nostre. Forse per questo 
        più sopportabili. 
        Già. 
        Come lacqua della pozzanghera che la ruota di quellauto ci 
        schizzò addosso appena usciti di casa, vestiti di tutto punto, 
        io con tight e cilindro e tu in abito bianco. Bellissima scena. Lì, 
        inzaccherati, ci sentimmo veramente ridicoli, uguali identici alle statuine 
        sulla torta di nozze. Era un trucco. Un formidabile effetto! Noi e le 
        statuine, sovrapposti. Ma, anziché sopra una montagna di panna, 
        eravamo giunti alla sommità del baratro, pronti a sprofondare ognuno 
        da una parte diversa. 
        Per non vederci mai più. 
        Per anni ho creduto che questo fosse il motivo della tua fuga: lincomprensione. 
        Come potevo sapere io che era tutto finito? 
        Lindomani mi presentai allappuntamento ma non ceri. 
        Nessuno, cera. 
        Soltanto alcune bottiglie dacqua sul tavolo, come una scena smantellata 
        in fretta, ecco fatto, attori svaniti, luci spente. 
        Un giorno, tanti anni dopo, una mattina rarefatta, una mattina di sole 
        in cui si scorge sulla linea dellorizzonte il profilo evanescente 
        di qualche montagna, mi pare di averti incontrata. 
        Tu, appesa ai tiranti della tua nuova vita, e io altrettanto, sul lato 
        opposto del marciapiede, talmente aggrappati alle nostre abitudini da 
        non riuscire nemmeno ad attraversare la strada. 
        Ti ho vista. Eri tu. Almeno credo. Anche tu, mi è sembrato, mi 
        hai notato. Ma è stato un attimo. Poi sei sparita, convogliata 
        dal flusso delle persone nella scalinata buia della metropolitana, come 
        se la terra ti avesse inghiottita. 
        Allora, ricordo, ho guardato lorologio al fondo della strada, lorologio 
        incastonato nella facciata austera della stazione ferroviaria, sulla torre 
        de la Gare de Lyon, quellorologio enorme, liberty, con le lancette 
        floreali e i numeri romani, quellorologio rotondo e un po 
        rétro. 
        Ricordo che segnava le tre. 
        Ma era fermo da sempre. 
      New 
        York, 1997. Tre persone sedute al tavolo di un ristorante: due uomini, 
        e una donna. Gli uomini si chiamano Steven e Robert. Sono entrambi giocatori 
        di dama, o meglio, campioni. Da anni si alternano al vertice della classifica 
        mondiale. Al loro fianco la donna. Il suo nome è Iris. Fuori piove. 
        Anzi, diluvia. 
        Chi riuscirà a conquistare il cuore di Iris?  
        Il tavolo è una scacchiera immaginaria. 
        Steven adesso tace. 
        Mastica lentamente un boccone di cibo. Ha iniziato il suo racconto dalla 
        fine. Dalle ultime frasi pronunciate da Candrace prima di morire. Una 
        bella mossa. È così che vuole cominciare la sua partita. 
        Con questa storia struggente.  
        Robert lo guarda compiaciuto. Forse si aspettava un tale inizio di partita. 
        Non forse. Sicuramente. Sanno tutti e due che la gara si disputerà 
        con pedine inconsuete: le parole. Il racconto migliore
 quello scioglierà 
        il cuore di Iris. Ognuno di loro avrà a disposizione un certo numero 
        di emozioni. Facciamo dieci? Dieci. Stretta di mano. 
        Ora Steven è in silenzio. Aspetta. Attende che Iris lo preghi di 
        continuare. Ha addentato uno stuzzichino. Lo assapora, morbidamente. 
        Ogni tanto s interrompe e le getta uno sguardo. 
        Dintanto. 
       
        Due 
       
        New York, 1997 
        (mezzora prima) 
      Piove 
        incessantemente da tre settimane sopra New York. 
        Le strade sono intasate e i tombini anche. Lacqua sgorga dai condotti 
        fognari, dalle tubature rotte, dai monconi dei pluviali divelti dal vento. 
        Pioggia che cade dal cielo e zampilla dalle strade. Acqua sopra e acqua 
        sotto. Potrebbe sembrare uno spettacolo seicentesco, una gigantesca Versailles 
        improvvisata dallamministrazione comunale, se non fosse che siamo 
        alla fine del Ventesimo secolo e di spettacolare in questo nubifragio 
        cè ben poco. A tratti manca lenergia elettrica e lacqua 
        spruzza ovunque senza alcuna sincronia. 
        Allora il fermento idrico diventa invisibile, se ne sente solo il fragore, 
        il sibilo, lo scroscio. 
        Spaventevole. 
        Il maltempo concede solo alcuni imprevedibili attimi di tregua. Pochi 
        minuti, tra una burrasca e laltra, sufficienti per attraversare 
        la strada e trovare riparo dentro un portone o allinterno di un 
        locale. Robert e Iris ne approfittano per uscire dalla mostra di quadri. 
        Una corsa e ricomincia a diluviare. Si ficcano dentro un ristorante. Cinese. 
        Levandosi il soprabito inzuppato, Robert esclama: - Che tempaccio!  
        - Plego - sorride il cameriere indicando loro un tavolo. Oggi, grazie 
        al temporale, ha servito almeno venti portate in più.  
        Prendono posto. Iris estrae dalla borsa un piccolo specchio e si sistema 
        i capelli. 
        - Lavresti detto che finiva così?  
        - Hanno dato pioggia, ma questo è un vero diluvio. Comunque, grazie 
        per avermi portato alla mostra. Come si chiamava lartista?  
        Ha già scordato il nome. Fa sempre così. Per lei conta lavvenimento 
        mondano, qualunque cosa sia. Conserva ancora il depliant nella borsa. 
        Lo cerca mentre Robert le risponde. 
        - Candrace. E si pronuncia proprio come si scrive. Aveva origini italiane, 
        abruzzesi, forse.  
        - Ah, sì! È vero. Bravo.  
        Il cameriere porta lacqua e qualche stuzzichino. 
        Rumore di tuoni e suoni di clacson nella strada. 
        Robert si serve per primo. 
        Iris lo rimprovera con lo sguardo. 
        - Fame?  
        - Uhm
 - risponde ingozzandosi. - Serviti, è buono.  
        Lei prende qualcosa, mordicchiandolo appena. 
        Il loro tavolo è di fronte alla vetrina. Fuori sta scoppiando di 
        nuovo il finimondo. Lacqua batte sui vetri, un rumore sordo e a 
        tratti fastidioso. 
        Sotto la tenda del ristorante un uomo trova riparo. 
        È sulla quarantina. Alto, magro, leggermente stempiato, con il 
        viso simpatico.  
        Vedendolo Robert esclama: - Ehi! Ma quello è Steven.  
        Lultima volta che ha visto Steven è stata a Dublino, nella 
        finale per il titolo europeo. Ma è trascorso oltre un anno. 
        - Steven! - urla inutilmente. 
        Iris lo compatisce con lo sguardo. 
        Robert allora bussa sul cristallo. 
        Steven si volta, riconosce lamico. Sorride, sorpreso. 
        Una pantomima con il vetro in mezzo. 
        Robert, agitando le mani: - Dai, entra!  
        Steven, indicando lorologio al polso: - Meglio di no. È tardi. 
         
        Robert, lasciando cadere le braccia sui fianchi, con espressione delusa: 
        - E su, non farti pregare!  
        Iris ferma, sbigottita a guardare lo spettacolo triste dei due mimi improvvisati, 
        di cui uno è il suo attuale compagno. Un desiderio irrefrenabile 
        di scomparire. Dai tavoli vicini alcune toccatine di gomito e qualche 
        sorriso mal trattenuto. 
        Alla fine Steven entra. I suoi vestiti sono molto bagnati, le scarpe inzaccherate, 
        la faccia stanca. Avrebbe fatto volentieri a meno di quellinvito. 
        Avrebbe preferito correre a casa e farsi un bagno caldo. 
        Comunque si siede. 
        Robert lo presenta alla sua compagna. 
        - Steven, questa è Iris. Iris, lui è Steven.  
        Stretta di mano. 
        - Come mai da queste parti? - domanda Robert allamico. 
        - Sono qui per la maratona. 
        - La maratona? Tu?  
        Steven non accoglie con piacere questa ironia gratuita. Perché 
        mai gli amici si permettono certe confidenze? 
        - Ho smesso di fumare - risponde infastidito. - Per farlo mi sono messo 
        a correre. Adesso non riesco più a smettere
 di correre, intendo. 
         
        Robert sembra soddisfatto della risposta. Poi si rivolge a Iris. 
        - Ti ho mai parlato di Steven? Sicuramente lo conoscerai. È il 
        miglior giocatore di dama al mondo
 dopo me, ovviamente.  
        Iris abbozza un sorriso. Sì, li conosce entrambi. 
        Come non potrebbe? Da anni si alternano ai vertici della classifica mondiale. 
        O è primo uno o è primo laltro. Da quasi due lustri. 
        La televisione più volte ha mandato in onda servizi e notizie al 
        telegiornale. Eppure, nonostante la rivalità, sono amici. 
        Robert è a New York per una contemporanea dimostrativa. Cinquanta 
        sfidanti, tutti di età inferiore ai quindici anni, promesse della 
        dama, campioni in erba. La competizione si svolgerà domani, alla 
        presenza di Richard Harrison della televisione. Robert ha già concesso 
        unintervista e le telecamere riprenderanno la gara in diretta. Ma 
        è per un altro motivo che Robert elogia il suo amico a Iris. 
        - È lui che mi ha fatto conoscere la storia di Candrace.  
        Alcuni fulmini squarciano il cielo. La notte è calata allimprovviso. 
        Robert è a New York da tre settimane e non ha mai smesso di piovere. 
        Un pensiero fulmineo lo fa riflettere sul fatto che il suo soggiorno coincide 
        con il temporale. Tre settimane di interminabili piogge. Ma anche la relazione 
        con Iris ha la stessa durata. Ha incontrato Iris a una cerimonia svoltasi 
        in suo onore, per il raduno internazionale dei circoli di dama. Iris è 
        unindustriale. Del ramo giocattoli. Produce giochi di società. 
        Voleva saperne di più sulla dama, fa parte del suo mestiere informarsi, 
        dopotutto. Così sono finiti a cena e poi a letto. 
        Robert si sente soddisfatto del suo comportamento. Durante il primo approccio, 
        per la verità molto breve, è stato in gamba con lei. Ha 
        sempre omesso di parlare di sé, come tutti i grandi; ogni tanto, 
        se glielo chiedevano, firmava autografi. Iris si è lasciata affascinare 
        da tanta popolarità. Ora stanno insieme. Come una coppia di veri 
        fidanzati, se fidanzamento si può definire una relazione così. 
        - Dai, Steven, raccontala anche a Iris la vera storia di Candrace. Così 
        come lhai raccontata a me. 
        Steven si fa un po pregare. Guarda Robert. 
        Gira gli occhi verso Iris. Gli pare curiosa. Ma di fronte a quello sguardo 
        insistente ha abbassato gli occhi. 
        Occhi scuri. 
        - Davvero ti va di ascoltarla? - chiede a un certo punto, rivolto esclusivamente 
        a lei. 
        Iris mormora un sì. 
        In effetti Steven fa un po il prezioso. È consapevole che 
        il suo sarà un bel racconto. 
        - Beh, se proprio insistete
  
        Così Steven ha iniziato la sua esposizione, dalla fine. Dallultima 
        cosa che il grande Candrace ha detto. O che si narra abbia detto. Ha raccontato 
        la storia dellacqua, o forse, meglio, quella che è diventata 
        nota come la storia scritta sullacqua a rappresentare 
        un rapporto instabile, provvisorio, destinato ad affogare. 
        - Tieni bene a mente - precisa rivolto a Iris - il particolare dellorologio 
        della stazione. Perché proprio lì Candrace ha incontrato 
        la donna che ha cambiato la sua vita. Un giorno qualunque del secolo scorso, 
        allalba del Novecento. Un pomeriggio in cui quellorologio, 
        che al tempo funzionava ancora, segnava le tre. Ricordatene, ti prego 
        - sussurra a Iris - è importante.  
        Poi mastica ancora qualcosa. Attende che Iris gli chieda di continuare. 
        Non deve aspettare molto. Iris pare supplicarlo con gli occhi. 
        Steven riprende il suo racconto. Stavolta dal principio. 
        Robert lo guarda orgoglioso. E soddisfatto. 
        Sarà una bella gara, sarà. 
       
        Tre 
       
        - Anche il giorno in cui inizia questa storia pioveva - dice Steven. - 
        Parigi, al tempo, era romantica come una cartolina illustrata, colori 
        un po sbiaditi, tinte pastello sullazzurro del cielo e ocra 
        degli sterrati. Delicati scorci attraversati dalle ruote dei carri e il 
        bianco degli sbuffi dei vaporetti sulla Senna. 
        Era il 1900. Né più né meno. 
        Era il 1900 a Parigi: lalba del Ventesimo secolo, lanno dellEsposizione 
        Universale. 
        Provate a immaginare le strade piene di colori, i manifesti pubblicitari, 
        le vetrine eleganti; e le signore che sfilano lungo i marciapiedi affollati, 
        avvolte nei loro vestiti raffinati, come su una passerella di moda, sfoggiando 
        bizzarri cappellini, pronte a girarsi e sorridere al suono dei clacson 
        dei pochi giovani privilegiati sulle loro automobili; e il profumo dei 
        dolci che si diffonde nellaria attraverso i comignoli delle pasticcerie; 
        e ancora, i lavori di abbellimento della capitale che proseguono a ritmo 
        sfrenato con centinaia di operai, impegnati nellopera di interramento 
        dei primi cavi elettrici; e, infine, i turisti che giungono in città 
        da ogni dove, impazzendo alla vista delle scale mobili, dei tram, dello 
        spettacolo maestoso della Tour Eiffel; provate a immaginare, insomma, 
        la Belle Époque. 
        Steven si interrompe. Poi soggiunge, quasi rimuginando tra sé: 
        - Ma non era così per tutti.  
        Sempre profondo, Steven! Robert ha la sensazione che nasconda un bagaglio 
        di riflessioni precostituite da sciorinare al momento opportuno. 
        Dietro la grande vetrina della città, illuminata a giorno anche 
        in piena notte, pulsava una vita di povera gente, una vita di vicoli, 
        di pensioni maleodoranti, di case fatiscenti e di panni stesi ad asciugare. 
        E proprio qui comincia la nostra storia, in uno di questi vicoli, dove 
        un gatto affamato e denutrito sta uscendo furtivamente da un bidone dellimmondizia, 
        lì, a pochi passi dal lungosenna e a poche centinaia di metri dalla 
        Tour Eiffel. 
        In un edificio scalcinato, in un viottolo buio, cera un negozietto 
        modesto, con una sola vetrina e due persone allinterno. Sullinsegna 
        di legno, rovinata dalle intemperie, una scritta: Gérard-peintre, 
        ossia Gerardo il pittore. 
        Mentre i ricchi attendevano in fila per entrare al Moulin Rouge e si perdevano 
        ad ammirare le donnine che ballavano il can-can, mentre veniva inaugurata 
        la Gare de Lyon da cui partivano tutti i treni per il sud della Francia, 
        e ovunque si potevano notare i manifesti dipinti da Toulouse-Lautrec, 
        la gente comune faticava a mettere insieme il pranzo con la cena. Tra 
        questi cerano il pittore Gérard Candrace e il suo amico Alain. 
        Gérard era un ometto magro e asciutto, pizzetto biondiccio e capelli 
        lunghi riccioluti, debole di costituzione e incline alla malinconia. Viveva 
        in un bugigattolo collocato sopra la bottega: due sole stanze, camera 
        e cucina, con il gabinetto nella corte dello stabile. 
      Fuori 
        intanto continua a piovere. Il cameriere cinese ha servito le prime portate 
        e ha acceso le candele nel caso mancasse la luce. 
        Involontariamente ha creato unatmosfera romantica. Il volto di Iris, 
        illuminato dalla fiamma della candela, sembra ancora più dolce. 
        Solo un attimo di incertezza, poi Steven si rischiara la voce e prosegue. 
      - 
        Era una giornata di pioggia e Gérard stava attaccato alla porta 
        con la faccia malinconica e un po dimessa, a pensare che, con un 
        tempaccio del genere, nessuno avrebbe fatto visita alla sua bottega. Nessun 
        cliente. Nessuno di quelli con i soldi. Daltronde i ricchi si fermavano 
        alla superficie della città, alle vie principali, ai viali alberati 
        e ai battelli sul fiume. Non entravano nei vicoli impregnati di odore 
        di cavoli e di carne putrida dei macelli improvvisati. Tanto meno in una 
        giornata di pioggia. 
        E, a causa della pioggia, lui non poteva uscire. Spesso si recava sul 
        lungosenna indossando il basco da pittore e la camicia bianca con le maniche 
        a raglan. Sgabello e cavalletto, teneva al fianco la sua valigetta di 
        colori e pennelli. Andava a fare lartista, pensava con grande autoironia. 
        In tali occasioni doveva per forza indossare un costume riconoscibile, 
        stereotipato, per la gioia di coloro che, passandogli accanto, avrebbero 
        esclamato: Uh! Guarda! Un pittore! identificando lartista 
        per il suo abito e non per i suoi quadri.  
      - 
        Giornataccia, oggi, non credi? - affermò rivolto ad Alain. 
        Alain non rispose. 
        Stava meditando su una possibilità che solo nei momenti peggiori 
        gli balenava alla mente: recarsi al cimitero. Erano tanti quelli che si 
        facevano seppellire chiudendo nella bara i loro oggetti più cari, 
        un orologio, una catena doro, un anello. 
        Avrebbe potuto provare a disseppellire qualche cadavere. Sarebbero bastati 
        una vanga, il buio e un po di sudore. Ma sì! Cosaveva 
        da perdere? 
        Magari, se Gérard gli avesse fatto da complice
 
        Quando si voltò verso lamico cambiò subito idea. 
        Gérard lo stava guardando in attesa di una risposta. 
        - Coshai detto? Scusa, ero soprappensiero.  
        - Dicevo che oggi è una giornataccia. Mi sa che sarà dura, 
        per un po.  
        - In effetti
 - rispose Alain. 
      I 
        due erano coetanei, trentunenni per lesattezza, anche se labuso 
        di alcool e di fumo aveva invecchiato a tal punto il viso di Alain da 
        far apparire una differenza di almeno dieci anni tra loro. 
        Alain era un commerciante di quadri, o almeno, così lui si definiva. 
        Moro, con il viso butterato, solcato da una lunga cicatrice sulla guancia 
        destra, postumo di una rissa di gioventù, indossava un vestito 
        nero, logoro e consunto sui gomiti e sulle ginocchia. Teneva le mani in 
        tasca, un po per ripararsi dal freddo e un po per celare la 
        mancanza del mignolo sinistro, lasciato sotto una vetrata anni prima. 
        Alain non aveva nessuna remora a ricordare quel giorno. Aveva deciso di 
        svaligiare un negozio, ma la vetrata, abilmente divelta, gli cadde sulla 
        mano amputandogli il mignolo. Una perdita che gli valse due anni di prigione 
        e la sfortuna, ben peggiore, di firmare in maniera indelebile tutti i 
        suoi colpi successivi. 
        - Ci sono solo quattro dita nelle impronte - asseriva la Gendarmeria, 
        - andiamo a cercare Alain.  
        Anzi, qualcuno, più malandrino di lui, approfittava di questa circostanza. 
        René, detto lastuto, si legava apposta con del nastro il 
        mignolo allindice prima di eseguire qualche spaccata. Tra i due 
        non correva buon sangue da tempo immemorabile, dal giorno in cui, per 
        la precisione, Alain aveva soffiato un affare a René e questultimo 
        si era trovato due tizi armati ad attenderlo sotto casa. Così René 
        non perdeva occasione per vendicarsi e far ricadere su Alain la paternità 
        dei suoi crimini. 
        Ed era riuscito a meraviglia nel suo intento. Venuta meno la sua principale 
        forma di reddito, ossia i furti, e con i gendarmi sempre alle costole, 
        per via di una vecchia storia di distillerie clandestine, le magre entrate 
        di Alain si fondavano prevalentemente sui quadri che riusciva a piazzare. 
        Cioè, Gérard dipingeva e Alain vendeva. 
      Gérard 
        prelevò un tozzo di pane secco da un canestro di vimini e un pezzo 
        di formaggio ormai ridotto alla crosta, avvolto in uno straccio ingiallito. 
        Stava per offrirne, ma si accorse che lunica cosa che poteva fare 
        era sfregare quella crosta sul pane raffermo, per dargli un po di 
        odore. 
        Alain rifletté sul fatto che la città è come un imbuto, 
        un grosso recipiente con una strozzatura: quel vicolo nel quale loro erano 
        costretti a vivere e dove il benessere non riusciva a entrare. I soldi 
        si fermavano alla fine del viale, dove la città si trasformava 
        in periferia. 
        Eppure, unalternativa per raggranellare un po di soldi cera, 
        ci sarebbe stata. Sicuramente. Si trattava di vendere quel 
        quadro. Il quadro a cui Alain mentalmente si riferiva rappresentava un 
        corpo femminile. 
        Una donna nel momento in cui esce dallacqua: alta, sensuale. 
        Una donna bellissima. 
      - 
        Se esiste qualcosa di oggettivo nella bellezza femminile - si interrompe 
        Steven, - molti sostengono che consista in questo: nellarmonia. 
        Armonia delle forme, proporzione degli arti, grazia. Io però non 
        la penso così.  
        Si prende una pausa. Fa un grande sospiro.  
        - Io credo - prosegue - che la bellezza sia un qualcosa che trascende 
        le forme, va oltre. Una specie di emanazione, sarei propenso a dire. A 
        volte penso, quando mi riferisco a quel dipinto, che la donna in esso 
        rappresentata sarebbe stata bella anche qualora mancante di una parte. 
        Mi allargo troppo se cito la Venere di Milo? Senza braccia, ma splendida. 
        Ecco, il soggetto rappresentato in quellopera di Candrace, era così. 
        Talmente sensuale e seducente che il suo fascino oltrepassava le forme. 
        Non le si vede la mano sinistra, che tiene dietro la nuca, tra i capelli 
        bagnati. Potrebbe anche non possederla. 
        Cosa cambierebbe? Sarebbe per questo meno bella?... Scusate la divagazione. 
        Torniamo alla nostra storia.  
        La donna dipinta era un capolavoro di avvenenza: magra, lunghe gambe sottili 
        di cui si intuisce però la stessa dirompente forza degli arti di 
        una giumenta, capaci di esplodere alle sollecitazioni dei tendini, che 
        sanno imporre alla caviglia limpulso di uno scatto, con il piede 
        che si flette sulla punta delle dita, lunghe dita sensuali, e imprime 
        il movimento lasciando sulla sabbia limpronta di se stesso. Così 
        perfetta che andresti lì a prelevare quel calco per riprodurlo 
        in migliaia di esemplari. Uno spettacolo di geometrica grazia, seducente 
        eppure involontariamente asessuato, come lorma della zampa di un 
        gatto sulla battigia. E poi il ventre, piatto, al cui interno spicca incastonato 
        lombelico, quasi che la gemma sia dentro, al rovescio, uno splendido 
        brillante che un minatore scopre incluso nel quarzo di una roccia, e di 
        cui vede solo la base, provocante al punto che pare dire al minatore in 
        estasi - Mi vuoi? Dovrai faticare per avermi! Ma scava, chissà 
        che
 E gli occhi, quello sguardo penetrante e al tempo stesso conciliante 
        che sembra lingresso di una caverna, quei giochi da baracconi, con 
        la donnina seminuda in primo piano che sorride e dentro i diavoli e i 
        fantasmi, che quando sei entrato, poi, voglio vederti a uscirne come prima, 
        un po ha toccato la tua anima e ne hai paura, ma non riesci a resistere 
        alla tentazione che quella macchina ti catturi e faccia di te ciò 
        che vuole. Per non parlare del collo, della pelle liscia sul collo, che 
        se un giorno Modigliani ha cercato un modello, può solo dolersi 
        di non averla conosciuta una donna così. È una Venere. Ma 
        per Gérard il passato è solo una fonte da cui trarre ispirazione. 
        La donna si passa una mano sui capelli bagnati, mentre laltra, assurdamente, 
        regge un ombrellino. Una scheggia di presente nel passato, un contrasto 
        voluto e simbolico. Gérard ha battezzato il suo quadro Venere 
        con lombrellino, tanto per non mancare allimpegno morale 
        preso con il suo stile. 
        Ogni volta, pensando a quel quadro, Alain si irritava ancora di più. 
        Aveva già trovato un acquirente per quella crosta, ma Gérard 
        non voleva sentire ragioni. 
        Mai si sarebbe disfatto del dipinto. 
        Cera una ragione in ciò. Un segreto motivo. 
        Si era innamorato del volto ritratto. 
        Gérard era convinto, senza saperne il perché, che un giorno 
        avrebbe conosciuto una donna bella come quella del quadro. Avrebbe vissuto 
        con lei. Per sempre! Per ora si accontentava dellimmagine. Utile: 
        come ogni surrogato. Indispensabile, a volte. 
        Soltanto di fronte alloriginale, in carne e ossa, avrebbe potuto 
        liberarsi
 liberarsi, sì
 di quellimmagine inventata. 
        Di quellossessione. Idea fissa. Chiodo. Tormento. Piacevolissimo 
        tormento. Incantevole! 
      Come 
        dicevamo, pioveva e Gérard sentiva dolore alle mani. Guardava ogni 
        tanto oltre la tenda di raso della vetrina. Lercia. 
        - Perché non dipingi qualcosa? - gli chiese Alain mentre girava 
        la mano nella tasca bucata, riflettendo sul fatto che non possedeva più 
        nemmeno una monetina. 
        - Ho male alle ossa - rispose Gérard. 
        Alain estrasse dal taschino interno della giacca una piccola bottiglietta 
        di liquore e la finì con una sorsata. 
        Dopo aver bevuto si rese conto della sua maleducazione. Non ne aveva nemmeno 
        offerto un sorso a Gérard. Ma ormai era tardi per rimediare. 
        - Come vuoi - concluse. - Io esco. Devo vedermi con un tizio per un affare. 
        Gérard rimase lì, a guardare la pioggia che cadeva e quel 
        volto
 
      
 
        il volto con i capelli bagnati di una donna che esce dal mare con un assurdo 
        ombrellino di stoffa gialla. 
      La 
        donna di cui era perdutamente innamorato. 
       
        Quattro 
       
        Steven si alza per farsi dare una nuova forchetta. Quella che stava usando 
        gli è caduta.  
        Indossa una felpa rossa e delle assurde scarpe da maratona bianche con 
        alcune strisce blu sui lati. Fuori dal ristorante continua a diluviare. 
        Il nuovo mondo contro il vecchio mondo. Pensa a questo mentre si allontana 
        dal tavolo. Gli piace New York, ma a tratti è convinto che nella 
        vecchia Europa si troverebbe più a suo agio, magari in una biblioteca 
        colma di libri o dentro un cinema di quelli di una volta, enorme, con 
        tante poltrone vuote e la maschera che passa a distribuire pop-corn e 
        coca cola. Due prodotti del nuovo mondo. È sempre stato incerto 
        sulla direzione della sua vita. 
        Anche quella volta a Gibilterra... 
        La sala era affollata di spettatori. 
        La semifinale vedeva i due avversari contendersi il passaggio alla finale 
        del titolo europeo. 
        Robert non aveva smesso per un attimo di fissare la scacchiera. Invece 
        lui, Steven, non riusciva a staccare gli occhi di dosso a una ragazza. 
        Per tutta la partita non era stato in grado di ottenere la dovuta concentrazione. 
        La ragazza si chiamava Josephine. Era di Chicago. E lindomani sarebbe 
        partita. Via, dallaltra parte delloceano. E lui? Lui sarebbe 
        rimasto lì, altri due giorni, per la finale. Non riusciva più 
        a vedersi in Europa. Voleva seguirla, rincorrerla
 
        Perse lincontro. Volontariamente. Lindomani prese anchegli 
        laereo per Chicago. 
        Steven si riprende dal ricordo. Il cameriere gli porge una nuova posata 
        e lui si sofferma a scambiare qualche parola con i suoi consueti modi 
        garbati e gentili. A volte smodatamente gentili - pensa Robert - e perciò 
        irritanti. 
        Quando torna, passando accanto a Iris, le domanda: 
        - Davvero ti piace questa storia?  
        Robert dà unocchiata a Iris. 
        - È una storia bellissima
 - risponde lei che si accorge di 
        essere scrutata. - È bravo il tuo amico a raccontare - aggiunge 
        rivolta a Robert. 
        Steven si sente lusingato. Ha apprezzato anche quel tuo detto con distacco. 
        Guarda Iris negli occhi. Robert invece ha gli occhi affogati nel piatto. 
        - Hai sentito, Iris?- chiede masticando. - Hai sentito che storia? - e 
        insiste affinché Steven riprenda il racconto. 
        - Vai avanti, ti prego, Steven. Faccio portare dellaltro riso alla 
        cantonese?  
        - Per me no - risponde Iris. 
        Steven annuisce con lo sguardo. 
        - Cameriere? Cameriere? - urla Robert. - Forse è meglio se mi alzo 
        e vado in cucina. Cè così tanta gente stasera
 
         
        Si allontana. Iris non sa dove guardare. Mastica piccolissimi bocconi, 
        imbarazzata. Ha paura di affrontare gli occhi di Steven. Cè 
        qualcosa di magnetico in quello sguardo. 
        Vuole versarsi dellacqua minerale. Allunga il braccio. Steven fa 
        altrettanto. Le loro mani si sfiorano sul vetro della bottiglia, nel pieno 
        rispetto delle regole del corteggiamento, banali quanto consolidate. Iris 
        ritrae la mano. Ora tutto il resto lo faranno il tempo, il destino e quel 
        pizzico di complicità che non guasta. 
        Robert ritorna. Felice. 
        - Ho ordinato il pollo. Con tante mandorle. Adoro le mandorle.  
        Un tuono scuote la vetrata. Alcune donne sobbalzano sulla sedia. Allimprovviso 
        mezza città rimane al buio. Si vede in lontananza la sottile linea 
        grigia dellinquinamento nel cielo illuminato dai fulmini. Si sente 
        la sirena dei pompieri. Una metropoli senza luce è come uno squalo 
        senza denti: terribile e ridicolo allo stesso tempo. 
        Ma lì lenergia elettrica cè ancora. Almeno per 
        il momento. E, comunque, ci sono le candele accese. 
        Steven rammenta la scena di un romanzo. Tanti uomini dentro uno scomparto 
        ferroviario e una sola donna. Il treno entra in galleria. Manca la luce. 
        Qualcuno bacia la donna. Chi di loro? Si domanda a chi penserebbe Iris 
        se andasse via la luce e ricevesse un bacio. Se allazzardo del pretendente 
        o allaffetto di Robert. Un pensiero fulmineo. 
        Sono le venti e venti. La cena proseguirà sino alle undici, undici 
        e mezza, forse. Poi? Poi dovranno uscire. Potranno temporeggiare ancora 
        una mezzora in attesa che spiova. Oppure chiamare un taxi. Ce ne 
        sarà qualcuno libero? Boh! Qualsiasi cosa faranno, per ora sembra 
        ancora lontana. 
        Iris riceve una telefonata. Di lavoro. 
        - Sì, sì, domani andremo in produzione, cinquemila scatole
 
        è un gioco bellissimo
 ma certo che per Natale andrà 
        a ruba! Questa è solo una prova. Se vende adesso, per le festività 
        la produzione sarà massiccia. È passato lo spot in tivù? 
        Daccordo. Bene. A domani.  
        È donna daffari. Ma il fatturato della sua azienda questanno 
        è diminuito. Con i giochi provenienti dalla Cina i costi di produzione 
        sono insostenibili. La lotta si è fatta impietosa. Ci vorrebbe 
        qualcosa, unidea per battere la concorrenza. Per un attimo la sua 
        mente è altrove. Se non accade un miracolo, più di trecento 
        suoi dipendenti dovranno essere licenziati. Non è certo una bella 
        prospettiva sotto Natale. 
        Lespressione del suo viso si contorce in una ruga di disappunto. 
        - Qualcosa non va? - domanda Robert. 
        - No, nulla. Le solite questioni. Scusate
 dove eravamo rimasti? 
         
        Steven riprende il suo racconto. 
         
      (...) 
         
         
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