i quaderni di Cico
 
 

 


ordinalo senza spese di spedizione



... e di Renzo Brollo, leggi anche RACCONTI BIGAMI,
SE TI PERDI TUO DANNO
e anche MIO FRATELLO MUORE MEGLIO

titolo:Metalmeccanicomio
collana: i quaderni di Cico
autore Renzo Brollo
ISBN 978-88-97424-94-9
©2014 - € 13,00 - pp. 206 - in copertina, “Robespiero”, foto di Francesco Marongiu.


In Metalmeccanicomio la meccanica è imprecisa, l’essere umano metalmeccanico è inadeguato e incompreso. Due schieramenti contrapposti dentro l’organigramma della battaglia si fronteggiano senza nemmeno saperlo
e quando ci si fa la guerra, non immaginando che si sta combattendo, le botte sono ancora più botte, i pugni
più pugni e i morti
ancora più morti.

Dentro una bolla di tempo sospeso, dopo che anche l'ultimo dei ribelli è stato catturato, si dipana il racconto dell'operaio metalmeccanico Robespiero, protagonista di una rivoluzione fallita e di dieci giorni di occupazione di una fabbrica destinata alla delocalizzazione. L'errore iniziale, viaggiando sopra una catena di montaggio immaginaria, si costruisce e diventa male assoluto, passando nelle mani di tutti i contendenti, trasformando le ragioni in torti.

 

CLICCA QUI E GUARDA LA CURISOSA INTERVISTA A TUTTO CAMPO A RENZO BROLLO NELLA TRASMISSIONE "TERZO GRADO" SU TELEFRIULI.IT, L'EMITTENTE TELEVISIVA DEL FRIULI VENEZIA GIULIA

 


Si dice che la morte appiani le differenze, ma di sicuro ci si arriva per vie molto diverse. È ciò che accade dentro questo Metalmeccanicomio, nato da una scintilla, così come ogni grande incendio che si rispetti nasce da una minuscola fiammella e poi si propaga, diventando incontrollabile. Operai contro imprenditore, operai contro carabinieri. Tutti inadatti a combattere per qualche cosa di ugualmente giusto: il lavoro, la sicurezza e la difesa della vita umana.


 

Metalmeccanicomio: Una storia di amore e odio nella Fabbrica. Leggi l'intervista di Giuseppe Iannozzi a Renzo Brollo.

Leggi la lucida, intelligente recensione di Alessandra Farinola per www.dasapere.it

 

 

Brano tratto da Metalmeccanicomio

(Incipit)

Un carabiniere dall’aria vagamente familiare mi costringe a entrare nella camionetta. Mi spinge da dietro, dice qualcosa che non capisco, sale e mi siede accanto. Le manette stringono e tagliano. Un dolore terribile, che se te lo raccontano non ci credi. Mi obbliga verso il divisorio che ci separa dall’autista, appena visibile attraverso una grata, gli fa un cenno d’intesa e partiamo sgommando. Una pattuglia a sirene spiegate apre il convoglio.
Chi ci incrocia, prima rallenta e poi accosta, cercando di capire cosa sta succedendo. Mi concentro sul viso di un uomo sceso da una berlina nera e lucida come la morte. Lo so, aspettava da giorni questo momento. L’uomo, che chiaramente è un manager e che nella nostra sopravvivenza vede incarnato il male identifica il corteo e capisce.
Veloce tanto quanto è arrivata, la visione del vincente rampante se ne va, oltrepassata e superata dal nostro convoglio in fuga dalla Zona Industriale.
Con la testa bassa torno al mio posto. Un’altra pattuglia ci segue facendo urlare le sirene e sfrigolare i lampeggianti. Dentro, altri carabinieri che hanno presidiato la nostra Fabbrica e che ci hanno combattuto bivaccando, vivendo e morendo assieme a noi. Chiude il corteo l’ambulanza della Croce Rossa, il lampeggiante spento, una blanda andatura che non denota più l’urgenza con la quale era giunta sul posto.

- Ho dimenticato di timbrare il cartellino - dico amareggiato a voce alta. Beffarda, l’abitudine alla routine dell’entrare e uscire sempre alla solita ora mi torna in mente proprio qui, proprio adesso che non ne ho più bisogno.
- Non importa - mi risponde il carabiniere con la sicurezza di chi sa quello che dice.

Invece importa. Importa eccome.

Svoltiamo l’angolo e subito la Fabbrica scompare all’apparire della tangenziale. Un intero mondo che evapora, basta voltargli le spalle. Tutto sparisce, lavoro e vita per come li ho sempre intesi. La scocca della camionetta diventa già una prigione, sebbene non sia stato ancora giudicato colpevole e nessun tribunale mi abbia, di fatto, condannato. Però ho creato un mostro, proprio io che i mostri li combattevo, perciò non posso aspettarmi che questo.
Il carabiniere mi fissa da quando siamo partiti. Il suo nome ancora rimbalza dentro al palato. Ne ho in testa molti, ma solo uno più certo degli altri. Lui, invece, sa molto bene chi sono.

- Robespiero - dice, - ora ti portiamo in caserma. Lo sai questo, vero?
- Va bene, Andrea.
- Daniele.
- Cosa?
- Mi chiamo Daniele. Ma come, non ti ricordi? Abbiamo fatto le medie assieme.
- Daniele, ma certo! Che stupido.

Ora che lo so, riesco ad associare a quel nome e a quella faccia tutti i ricordi che credevo dimenticati: la bocca enorme, quell’incredibile risata grassa, la sua bravura a pallone. Sono tutti dettagli che riemergono assieme in uno spruzzo di immagini sbiadite. Da bambino portava i capelli più lunghi. Oggi, il cranio bianchiccio riluce sotto l’ordinata coltre rasata a dovere. Gli occhi grandi e chiari, quasi grigi, sono rimasti. Grazie a loro, nella somma dei lineamenti si ristabilisce un certo gradevole equilibrio.

- Comprensibile che tu sia confuso. Cerca di rilassarti, ora. Tra dieci minuti saremo in paese.

Come se non lo sapessi. Da vent’anni, due volte al giorno, per cinque giorni la settimana, percorro queste distanze, dalla porta di casa fino al cancello della Fabbrica. Nel frattempo ho cambiato tre automobili, mentre io sono rimasto sempre lo stesso. Puntuale, regolare, non ho mai sgarrato e non ho mai smarrito la strada che porta alla Zona Industriale, che accoglie tutti a braccia aperte. Vecchi, giovani, buoni e cattivi, froci, lesbiche, stacanovisti, lavativi, pazzi, a volte qualche prete. La Zona Industriale non guarda in faccia nessuno, se quel qualcuno che bussa alla sua porta ha il tesserino con la banda magnetica, un numero di matricola e delle scarpe adatte a camminare sulla limatura di ferro. Se possiedi queste cose sei un Metalmeccanico, lavori per la Fabbrica e la Fabbrica lavora per te. Ti tiene nel suo ventre, al chiuso, per otto ore al giorno. Poi ti libera, come fossi un cane che deve uscire per pisciare e che, prima o poi, tornerà a casa.

Daniele inarca la schiena, allunga le braccia e si stiracchia. Come tutti noi, ha passato lunghe notti fuori casa a presidiare lo stabile, a raccogliere i cocci di cose e di uomini. Siede accanto a me, incastrato sui seggiolini ribaltabili in pelle nera, incaricato di sorvegliare il pericoloso prigioniero.

- Senti, non dovrei nemmeno parlare con te.
- E allora perché lo fai?
Scrolla le spalle, storce la bocca. - Ci conosciamo, ecco perché. Mi sembra ieri che andavamo a scuola con lo stesso scuolabus, e adesso guarda dove sei finito.
- Perché? Cos’è che ti stupisce, eh? Che cosa ti aspettavi dal buon vecchio Robespiero?

Ci mette un po’ a rispondermi.

- Non lo so, ma eri diverso dagli altri, tu. Sembravi sempre triste e preoccupato. Però non mi sei mai stato antipatico. Almeno non fino a dieci giorni fa.
- È così che mi vedi?
- Ora non più. Perché quest’aria che avevi da ragazzino poteva andar bene una volta, ma non ora, non dopo quel che è successo. Poi, avevi la capacità di stuzzicare le persone.
- Hai ragione, mi è sempre piaciuto. Magari l’ho fatto anche stavolta.
- Non te ne rendi ancora conto, vero? Mi stai dicendo che non hai idea di quello che avete fatto. Non è così?

Davanti ai miei occhi, il veloce passaggio di un corpo che viene estratto da un frigorifero crivellato di colpi. Sento un pizzicore forte al petto.

- Vuoi che ti dica che sono un mostro? Ma certo, sono un mostro e della peggior specie. Di quelli che prendono i ragazzini e li fanno crepare. È tutto vero, accidenti. È proprio così che è andata.
- Eri il capo, per quelli là. Hanno fatto tutto quello che ordinavi e guarda cos’hai ottenuto. Una strage. E per cosa, poi? Per un niente.

Non è vero! E se nemmeno questo giovanotto tutta testa e divisa, che si vede che ha studiato e che pensa in grande non l’ha capito, allora vuol dire che davvero abbiamo sbagliato tutto. Tutto. Ma ogni granello di violenza è venuto da sé. Come un petardo che fa scoppiare un altro petardo. Ma sembra che il primo botto se lo siano già dimenticato tutti. Da un niente, da pugni presi e dati, si è arrivati alla morte così rapidamente da non crederci. Eppure è successo, è già storia e necrologio e da questo non si torna indietro.

Resto chino sui ricordi, a guardarmi le scarpe di sicurezza logorate dal molto uso, la loro punta rinforzata graffiata dalla limatura di ferro.

- Lo sai, avremmo potuto distruggere la Fabbrica in qualsiasi momento, se questo fosse stato il nostro scopo.
- E non lo era?
- Per niente. Dopo la nostra famiglia, quello è il posto che abbiamo amato di più. Come avremmo potuto distruggerlo?
- E allora?
- Allora cosa?
- Perché l’avete massacrata?
- Perché non volevamo perderla.
- Non volevate perderla.
- No, e invece è successo.

La camionetta accelera e rallenta senza grazia. Seduti uno accanto all’altro, ci strusciamo coi gomiti e con le ginocchia. Contro la sua divisa nera e rossa, la mia tuta blu, logora, odorosa di nafta rappresa e macchiata di chissà cosa, si staglia netta e ci fa sembrare ancora più lontani di quello che siamo. Sembriamo due specie animali diverse costrette a viaggiare dentro la stessa gabbia. La mia è la razza dei lavoratori metalmeccanici, la sua non so.

- Scusami se non mi sono ricordato subito il tuo nome, Daniele.
- Non importa, te l’ho già detto. Ora questo è l’ultimo dei tuoi problemi.

Invece importa. Importa eccome.

Dalla radio, messaggi gracchiati irrompono all’interno del nostro abitacolo. Il conducente risponde con parole in codice che non so decifrare. La scocca vibra e dondola, agitandomi. Comincio a tremare, senza rendermene nemmeno conto. Le dita afferrano e stringono forte la piccola griglia che separa noi due dall’autista, il ferro piegato incide la carne delle dita. Non vorrei farlo, non vorrei mostrarle, ma le lacrime scendono disobbedendomi.

- Adesso piangi, Robespiero? È troppo tardi, non credi? Dammi una buona ragione per la quale dovrei compatire te e i tuoi colleghi. Perché non mi fate pena, cazzo.

Vorrei dirgli: perché siamo piccoli metalmeccanici e i metalmeccanici non hanno mezze misure, caro compagno di scuola, ma accettano solo numeri quasi perfetti. I nostri non lo erano più, perché il signor Celso li aveva rovinati.
E vorrei aggiungere: per questo motivo, perché sono un metalmeccanico, prendo sulle mie spalle tutto il peso delle scelte fatte, delle conseguenze che quelle scelte hanno causato. Sopporterò il giudizio per ogni singolo minuto trascorso dentro la Fabbrica occupata, di quando m’impedivo, convincendo anche gli altri, di uscire con le mani alzate, abbandonandomi all’idea che tutto potesse sgonfiarsi come una bolla di plastica bollente che perde improvvisamente volume.
Questo è tutto quello che vorrei dire a Daniele. Ma non lo faccio, imprigionato dentro un abitacolo in movimento, ammutolito dalle troppe cose che ho dentro e che scalciano come bambini per uscire all’aperto.

La camionetta prima rallenta e poi decelera bruscamente, trovando un ingorgo al primo incrocio. Sembra incredibile, ma dall’assoluta impenetrabilità del cordone attorno alla nostra Fabbrica, in poche centinaia di metri siamo passati alla solita vita frenetica della Zona Industriale. L’argine, ora lo vedo, è stato creato apposta per contenerci e trattenerci, per isolarci senza isolare tutto il resto, che doveva continuare a macinare materia per creare soldi nel giusto modo. Camion in colonna aspettano il turno per entrare e caricare. Altrettanti camion in uscita prendono direzioni diverse, rombando aggressivi. Tra loro, auto aziendali sfrecciano senza frenare, provando a svicolare per evitare l’ingorgo. Cerco dettagli, trovo nostalgia.

- Vedi cos’hai fatto, Robespiero? Come hai potuto cacciarti in questo casino, eh?
- Ci credi se ti dico che non lo so? O forse sì. So come ci siamo arrivati, ma non il perché.
- Questa cosa ha fatto il giro dell’Italia, anche se non te ne sarai accorto.
- Non era questo che volevo. Che volevamo, ecco.
- Però è successo. Avete ucciso.
- È complicato. Se ti racconto tutto dal principio…
Ma lui m’interrompe, stizzito. - Lascia stare, non importa. Devi dirlo al Magistrato, non a me.

Invece importa. Eccome, se importa.
Perché è il tradimento, qui e ora come ieri dentro la Fabbrica, il nemico tanto temuto. E questo andrebbe detto, urlato a voce alta: una zizzania comparsa all’improvviso e che non abbiamo saputo vedere e poi cogliere prima che contaminasse la nostra produzione giornaliera.
Da tempo, infatti, si parlava di una manifestazione su scala nazionale, da abbracciare e condividere a ogni livello gerarchico. Da molte settimane c’era chi chiamava in assemblea, chi preparava il terreno per radunare quanta più gente possibile. Legittimi scopi, certo, di chi avrebbe voluto il bene della categoria, ma per mezzo di persone deboli o volutamente tali che, insinuando negli operai il dubbio sulla bontà dell’organizzazione interna, stavano minando alla base quel fragile muro che sorreggeva le loro placide giornate in Fabbrica. C’era poi un’intenzione e un progetto a noi allora oscuro, che dagli uffici dirigenziali stava per cambiarci la vita senza alcun segno premonitore. Era la brace viva sotto la cenere sulla quale noi camminavamo scalzi.

Prendo le curve assieme a Daniele, replicando le sue mosse per rimanere in equilibrio. Ci imbarchiamo alla stessa maniera nell’affrontare gli arabeschi che dalla tangenziale portano alla statale e, se l’anima regge lo sforzo, il corpo vacilla. Dieci giorni d’assedio, abbiamo subito. Dieci giorni a centellinare merendine flosce e panini sottovuoto, tra una ronda per difenderci dai loro attacchi e la guardia al dottor Celso, ostaggio di chi fino a poco prima lo salutava, riverendolo. Ma da oggi non sarà più così. Ristabilite le gerarchie e dopo un breve periodo di fisioterapia per ravvivare polsi e caviglie, sono certo che tornerà al suo posto, a quella scrivania che per qualche notte è stata anche il suo letto. E dei nostri morti non rimarrà traccia, se non gli armadietti chiusi da una chiave smarrita chissà dove.

La camionetta, procedendo veloce, si incunea nelle strade cittadine piene di vita variegata. Anche Daniele, silenzioso come me, scruta le facce della gente. Ripenso alle sue parole. I giornali, da quando il manicomio metalmeccanico è scoppiato, avranno dedicato più di una colonna all’evento. La notizia sarà stata seguita da tutti i quotidiani nazionali, perciò i più informati, osservando il convoglio, avranno già tirato le somme, sospirato per la fine di una faccenda della quale si parlerà per anni e che forse modificherà il profilo della Zona Industriale. In fin dei conti, un pandemonio così grande non s’era mai visto, nemmeno all’epoca dei primi grandi scioperi. Nessuno si sarebbe mai immaginato un’occupazione come la nostra. Nemmeno noi che l’abbiamo voluta.

(...)


 
 
 

Renzo Brollo, nato a Gemona (UD) nel 1971, sposato con prole, è un impiegato metalmeccanico sin da quando ne ha memoria. “Per ora è così, magari le cose cambieranno”. Dal 2009 fa parte della redazione del sito Mangialibri, per il quale divora e recensisce libri. Picchia sulla fisarmonica nel gruppo folk-rock Bakan e con loro ha pubblicato tre dischi. Per Cicorivolta ha pubblicato Racconti Bigami (2006), Se ti perdi tuo danno (2007), Mio fratello muore meglio (2010). Da uno dei racconti del 2006, Vicini di casa, è stato tratto il film in lingua friulana Visins di cjase, prodotto da Uponadream.