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titolo: "EREDITARE L'ETERNITÀ"
collana temalibero
autore Vladimir G.Londini
ISBN 978-88- 95106-65-6
€ 12,00 - pp.181 - © 2010 - in copertina illustrazione originale di Maria Molina


La scoperta dei segreti dell'eterna giovinezza, unitamente alla forza creatrice dei pensieri, offrirà all'Umanità possibiltà incredibili.

I protagonisti di “Ereditare l'Eternità”
sembrano, ad un primo approccio, irreali. Tuttavia non è così.

Si tratta di individui speciali e pure terreni, clonati dai nostri sogni migliori.
Hanno superato le ormai ristrette dimensioni prospettate dalla Commedia Divina. Costituiscono l'Oltre del Nostro Tempo,
la transmigrazione verso l'Ora Nuova della Conoscenza, la fine del preludio tout-court dell'Essere Ragionevole.

Essi rappresentano, in sostanza, l'apertura alle prime pagine della vera Storia dell'Uomo
che recupera la Semplice meravigliosa Consapevolezza della propria Natura immortale.

 

 

 
 

 

In “Ereditare l'Eternità”, Vladimir G.Londini ci porta in una Roma che non c'è più, ci fa visitare un Louvre deserto e una Parigi coperta di boschi. Nor e Lea vivono in un futuro senza passato e ci accompagnano in un viaggio tra cloni, alieni, paesaggi lunari, ologrammi, ponendosi domande esistenziali per poi giungere a una conclusione quasi semplice... La soluzione è l'amore, l'unica forza generatrice capace di dare un futuro all'esistenza
e un significato all'eternità.

(Carmen Cogliandro)

 

 

Brano tratto da "EREDITARE L'ETERNITÀ"

(...)

Infiniti papaveri fiammeggiavano come disegnati in un quadro, mentre una leggera brezza, dal profondo ansito, frusciava sul prato, via via rianimandosi. Così, a tratti, persino l’immaginazione annichiliva di fronte all’immobilità dell’ora e pure per effetto del movimento, che sempre reca con sé il risveglio prodigioso della natura.
Nell’osservare il quadro che aveva ricevuto in regalo a Parigi qualche anno prima, Nor si ritrovò a riflettere su quanto difficile fosse immedesimarsi e comprenderne fino in fondo le sfaccettature, i significati reconditi, le connessioni; per questo riteneva di non essere stato mai, sin da subito, in grado di prenderne davvero possesso, di entrare nello spirito dell’immagine, di valutarne appieno la valenza estetica. Così ragionando si disse che tutto ciò che andava oltre le proprie capacità intellettive accusasse il fondamentale bisogno attuale di un’ulteriore maturazione artistica. “Di certo, l’enigmatica origine divina della natura umana si manifesta in primo luogo nell’arte - meditava - nell’ispirazione impressionistica del senso originale, indeterminato, indefinito, inafferrabile…”.
Si trattava di un quadro appeso a una parete del suo studio adornata da sei nature morte che appartenevano alla creatività e ai pennelli di certi pittori che attraverso un’ispirazione, per ciascuno diversa dagli altri e pure incredibilmente oggettiva e sostanziale, avevano saputo immortalare la natura più viva e magnifica riproducendone l’anima primordiale, il respiro, il tempo, la stagione, persino anche il movimento e la luce che possedeva i segreti imperscrutabili dell’eternità.
“Non mi ritengo certo un fanatico di pittura né un pazzoide, ma attraverso questa forma d’arte io comprendo, io riesco a sentire l’Invisibile. Sì, lo sento. È una cosa che mi emoziona e mi nutre dall’intimo delle mie stesse radici. E ho davvero impressione che sia una splendida fortuna, un’immensa opportunità di ricevere la Luce” Nor seguitava a ragionare tra sé.
“Mi chiedo in fondo cosa sia, nella sostanza, poter attingere al massimo della realizzazione umanamente plausibile, aggiudicarsi il punto culminante, la meta esclusiva, cose ben di rado raggiunte da una mente geniale; e mi domando quale potere, quale privilegio sia più accattivante del non seguire la sorte di tutti coloro che anelano esclusivamente al vivere dignitoso, senza tuttavia arrivare mai alla conoscenza, senza mai vedere oltre se stessi; privi di ogni senso ultimo che conduca all’Idea fondamentale. E allora, cos’è dignitoso? E cos’è Dignità? Tutto ciò che è passato ed è svanito tragicamente nell’oblio, tutto il tempo inadeguato vissuto da intere generazioni di uomini che non hanno saputo fare il Mestiere dell’Uomo, che non hanno superato la prova di se stessi per mancanza di…”. A quel punto, d’improvviso, come una cascata fragorosa che tutto lava e porta via, cominciò a scrosciare la pioggia. E con essa, in men che non si dica, tutte le impressioni, le certezze e le titubanze di Nor perdettero consistenza. Quasi ridestato da un sogno si avventò verso le finestre spalancate e le richiuse d’impulso. Il fragore dell’acquazzone fu talmente forte da zittire i boati del tuono. Il muro d’acqua, là fuori, inghiottiva lampi che si dimenavano come frustate di abbagli per lo studio sprofondato nell’oscurità.
Poi, con la precisione di un Supremo Impegno sottoscritto da una qualche Forza Primigenia, la pioggia cessò, esattamente così come aveva cominciato. Una sorta di pioggia tropicale, che in un quarto d’ora aveva intriso a fondo i densi boschi di quercia che coprivano i colli di Roma, rendendo all’Urbe quello stesso aspetto primordiale che dovette avere sin dai tempi di Giano Bifronte, molto prima che si compisse tutta la sua Grande Storia materiale e immateriale. E ora, nella foresta gocciolante, che aveva assorbito le strade e le piazze della città spopolata, vagavano colonie di capre spaventate e abili cinghiali selvatici.

A quel tempo, la comunità terrestre contava qualche centinaio di esponenti disseminati in tutto il mondo. Alcuni di essi abitavano in gruppi altri, come Nor, preferivano la solitudine.
Nor uscì dalla porta di vetro che conduceva dallo studio a un patio interno, il cui giardino rigoglioso di fiori rendeva l’aria umida così odorosa da far girare la testa. La prepotente versa di pioggia si era abbattuta senza pietà sulle aiuole ordinate; si trattava perlopiù di gigli e orchidee, la cui fragilità contrastava con l’aspetto selvaggio della città silenziosa e inabitata. Rispondendo al muto dolore dei fiori feriti Nor si prese cura degli steli spezzati con l’intento di allungare loro la vita. Rientrò e provò a sistemarli in una terracotta che aveva nello studio. Quello stesso studio situato in un’ala del Palazzo che in un periodo precedente fu denominato: LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI. “Ma non la giustizia e neppure la legge serviranno a rianimare questi gambi feriti, che hanno bisogno di acqua placida e nutriente, non di quella che tutto distrugge” pensò Nor avvicinandosi a un antico scaffale con decorazioni a intarsio e deponendovi, con un breve gesto colmo di delicatezza, il vaso di coccio.

Lungo le pareti dello studio di Nor, oltre ai quadri, numerose mensole cariche di libri antichi depositari della parola. Nella comunità terrestre nessuno provava disagio al cospetto di un libro; però la maggior parte di loro usava diversi e più immediati veicoli di comunicazione e di rappresentazione polifonica della realtà. Nessuno riteneva che la parola espressiva fosse morta o non avesse alcun senso attuale. Tutti erano d’accordo nel sostenere che la parola fosse stata in grado, fin dalla sua origine, di meravigliarsi per la gioia, di soffrire atrocemente per il dolore, allo stesso modo di un pennello o di un arco di violino; ma sempre, il dolore o la gioia, furono riprodotti dal pennello, dall’arco o dalla parola quali strumenti alla portata delle possibilità umane. Mai e poi mai gioia e dolore furono rappresentati dalla vita nella propria variabilità, incommensurabile quanto invisibile. “Come può dunque la parola rappresentare l’ignoto, il mondo nascosto? Oppure, ad esempio, trasferire gli eventuali sentimenti di un fotone o di un gravitone? Solo tramite fantasie, allegorie, simbolicamente, certo, questo sì. Anche il Verbo in carne e ossa rappresenta un’immagine, un simbolo della fede necessario laddove non è possibile inserire l’esperienza diretta. E se è vero che lo scopo del simbolismo è quello di costituire orientamento alla vita, è altrettanto vero che non può esserne la guida” concluse Nor, sistemando nel vaso i fiori spezzati, dunque volgendosi attorno.
Fu in quell’istante che il suo campo visivo rimase attratto dalla copertina gialla di un libro sottile, appoggiato di sghembo sopra un grosso volume della “Divina Commedia”. Scritto in italiano, il titolo del piccolo libro era: “L’Incanto-2018”. Nor lo afferrò dalla mensola e se lo rigirò fra le mani. Prese a sfogliarlo sbrigativamente. Era un libro con una storia che in qualche modo lo riguardava molto da vicino. “Mi piacerebbe sapere cosa avesse immaginato la gente attraverso l’uso di questo simbolo” si disse. “L’Incanto. Ma quale Incanto? Io sono un clone, e non sono poi così diverso, per immagine e somiglianza, da quella che fu la razza umana. Senza dubbio sono più sviluppato, sia fisicamente che psicologicamente. E sono sensitivo. Inoltre, so riconoscere la presenza di virus ed eliminarli dal mio organismo. Ma non per questo vivrò per sempre. Non ho difetti né vizi. Sono geneticamente programmato per rispettare la vita. Diciamo che… ho un’anima ecologica. Però, in un certo senso, sono identico alle persone umane: infatti sono mortale come lo erano loro. E così, adesso, in questo preciso istante, con questo piccolo libro che mi solletica le mani con le sue pagine, mi chiedo se non fosse esattamente per un’ansia d’immortalità che gli umani sentirono il bisogno di un simbolo, di un Incanto, una prosecuzione all’infinito, un miracolo che potesse rassicurare loro che in fondo non ci sarebbe stata mai nessuna fine. Io, per quanto mi riguarda, oggi, non ho alcuna necessità di questo tipo: infatti mi ritengo già un miracolo in carne e ossa, visto che mi hanno ideato e fatto vivere ben ventinove anni fa con lo scopo sperimentale di superare la finitezza umana... ”.
Sull’onda di quei ragionamenti Nor avvertì una chiamata telepatica e ripose il piccolo libro sullo scaffale da cui lo aveva tratto. La breve comunicazione diceva: “Come stai? Non ti sento da tanto. Perché non rispondi ai miei messaggi? In ogni caso non ho voglia di rispettare il tuo silenzio e nemmeno di ascoltare banali scuse. Devo vederti. Ho bisogno di un solido aiuto, di un competente consiglio astrofisico e matematico. Fatti sentire. Lea.”
Immediatamente Nor predispose il riscontro telepatico al fine di fissare l’appuntamento richiesto: in nessun caso voleva perdere l’occasione di un nuovo incontro con lei. Questa giovane donna dai capelli rossi e gli occhi audaci, impregnati di un marrone senza fondo, era divenuta parte notevole del suo mondo onirico. Lea possedeva un’aura splendida e contagiosa, che emanava un incantevole campo bioenergetico. Ne fu attratto sin dal primo incontro. E ogni volta che l’aveva accanto, Nor avvertiva dietro la nuca uno straordinario afflusso d’emozioni, un grumo caldo di energia positiva.
“Peccato non poterlo sentire anche così, con la stessa intensità, mentre lei è distante” Nor immaginò.
“Questo difetto mi infastidisce parecchio. Devo al più presto affinare le mie tecniche sensitive, sfruttare più efficacemente le capacità che mi sono state date. Se prima la prerogativa di percepire i sentimenti di una persona lontana mi appariva superflua, ora che ne ho conosciuto il piacere non posso accettare di limitare la mia vita emozionale per una banale ignoranza ingiustificabile” concluse provando un senso d’inadeguatezza di fronte all’irrimediabile lontananza di Lea.

Per tentare di ritrovarla rivolse la sua attenzione ai ricordi del loro primo incontro, quasi due anni prima, in una Parigi somigliante alla Roma silvestre e disabitata di oggi. Tutte le città erano infatti diventate vere e proprie riserve naturali e per le strade di questa Parigi selvaggia, tra i numerosi castagni dipinti d’autunno, vagavano non solo pavide capre e gazzelle stupite dalle bellezze autunnali, ma anche cervi e alci superbi che, con tracotante indifferenza, guardavano le scure acque della Senna che, senza fretta, trasportavano un fogliame itterico.
Era la prima volta che Nor visitava Parigi. C’era anche uno scopo che lo aveva condotto là, non si trattava solo di curiosità e voglia di ammirare la foresta parigina. Nor e suoi dodici colleghi astrofisici infatti, ogni due anni, facevano simposi per l’interscambio delle esperienze professionali e quella volta la discussione si sviluppò a Parigi, nella “Notre Dame” che a volte era usata per osservazioni astronomiche. All’ordine del giorno c’era il perfezionamento dei sondaggi telescopici e telepatici di alcuni pianeti con caratteristiche similari a quelle terrestri.
Dopo la fine del lavoro e dei colloqui, che avevano generato più domande che risposte, Nor si diresse a visitare il Louvre. Qui, fra i quadri annoiati dalla “pace eterna”, si scontrò con lei.
Lea era l’unica custode dell’immenso patrimonio artistico e svolgeva questo compito per puro spirito di volontariato. Aveva però anche interessi scientifici, si occupava di ricerca microbiologica e genetica. I suoi interessi scientifici erano però diversi da quelli di Nor e questa non era l’unica differenza fra loro! Lea era un clone diverso, un “clone biologicamente puro”, creato come un modello “dell’eterna giovinezza”, con il sistema immunitario non consumabile. Questa varietà di clone era il nucleo centrale della loro comunità postumana. I cloni ideati invece sul modello di Nor erano una riserva materiale da utilizzare in caso di fallimento dell’esperimento orientato ad acquisire l’immortalità. I creatori di quest’esperimento non avevano infatti scartato a priori un tale epilogo, una casualità imprevista, una fatalità tale da cambiare radicalmente tutto il disegno programmato e avevano quindi fatto proprie le regole del gioco dell’Indenterminatezza.
Per Nor ora, molto tempo dopo, era difficile scoprire questa nascosta possibilità. L’immagine di un caso fatale non veniva fuori, allo scoperto, rimaneva nel buio anche dopo ripetute prove da parte sua. Ogni volta Nor ricominciava dalla storia della propria nascita, dalle radici della propria origine ma gli sfuggiva sempre un particolare, e il senso di Indeterminatezza che lo aveva creato rimaneva per lui oscuro.
Vide la luce per la prima volta a quattordici anni, lasciando una “barocamera” posata tra qualche centinaio di “camere” simili che funzionavano in un’enorme lucida rocca, in regime di “casa passiva intelligente”. La maggior parte di queste “camere” era già vuota. Alcune rimanevano ancora chiuse e continuavano il proprio lavoro creativo.

(...)


 

Vladimir G. Londini è un nome d'arte, ispirato all'autore dall'Ignoto, del quale, in tutta la sua vasta produzione letteraria, si occupa. Infatti, dalle commedie alle fiabe, alla narrativa più profonda, la passione di Vladimir G.Londini è legata alla ricerca e alla speculazione intellettuale proprie dei labirinti dell'essere e Dell'apparire della dimensione umana.

In Italia ha pubblicato “La Luce scomparsa”, “Sulle scale dell’Infinito”, “Sulla fronte non toccata dal tempo” e “Sotto la dicitura dei miracoli” (Romanzi - Cicorivolta 2009/2010)